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Daniele Capezzone: Javier Milei, quando vince la destra anche il popolo è fascista

di Daniele Capezzone martedì 21 novembre 2023

5' di lettura

Ma chi si crede d’essere Javier Milei? Pensava forse di ricevere un trattamento mediatico normale o una minima apertura di credito? Ma quando mai: se nel 1980 L’Unità riuscì a titolare «Inquietudine nel mondo per la vittoria di Reagan», figuriamoci cosa poteva venir fuori sul controverso vincitore argentino. Con la differenza che L’Unità era l’organo del Pci, mentre oggi toni analoghi li usano pure i giornali della cosiddetta stampa indipendente. E infatti ormai non c’è elezione - in qualunque parte dell’orbe terracqueo - che non venga seguita da quello che potremmo chiamare l’Inviato Unico, il Corrispondente Collettivo, secondo uno schema fisso, che prevede una premessa e due possibili svolgimenti.

La premessa è che, in Italia e fuori, i lettori e gli elettori vadano essenzialmente puniti-corretti-rieducati: insomma, bisogna spiegargli quello che devono pensare, dar loro la pagella anziché ascoltarli. Pena? Se la rieducazione non riesce, l’“alunno” verrà confinato nell’inferno morale di essere considerato un fascista-razzista-populista-sovranista.

LA ZTL MENTALE - Perché questa premessa? Perché buona parte degli analisti di politica internazionale (e, come e con loro, i maggiori commentatori, gli opinionisti televisivi, e così via) appartengono al milieu culturale politicamente corretto, a una specie di Ztl mentale, a una supercasta sacerdotale braminica che non ascolta più, ma si ritiene in diritto e in dovere di pontificare, di piegare la realtà ai propri schemini di riferimento. Il guaio è che i nostri “eroi” dei grandi media, sconnessi come sono dai sentimenti dei ceti popolari, per anni non ne hanno azzeccata più una. Dal 2016 a oggi, è stata una Caporetto continua: non hanno capito Brexit, non hanno capito l’ascesa (e ora il ritorno) di Donald Trump, e ovviamente non hanno capito la crescita potente prima di Matteo Salvini e poi di Giorgia Meloni qui in Italia.

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Seguire le campagne elettorali sui maggiori media, da anni, è un esercizio surreale (per un osservatore indipendente) e insieme un gran divertimento (per chiunque sia estraneo a quel mondo di parrucconi progressisti). Prima del voto, con la consueta sicumera, gli “esperti” assicurano che le cose andranno in un certo modo. E subito dopo, con la stessa faccia e la stessa alterigia, malamente nascoste dalle operazioni di trucco e parrucco, tornano a spiegare perché sia successo esattamente il contrario delle loro previsioni. Non solo: è a questo punto che scattano due diversi svolgimenti, ormai codificati e collaudati, anzi trasformati in format fissi. Uno in caso negativo per loro (cioè se ha vinto la destra), e uno in caso positivo sempre per loro (cioè se ha vinto un candidato di sinistra).

PRIMO: SORPRENDERSI - Nel primo caso, è fondamentale sorprendersi del risultato. Nascono proprio così i titoli sulla «sorpresa Trump» o sulla «sorpresa Brexit» (ieri sulla «sorpresa Milei»). Ma si tratta di “sorprese” solo per chi non aveva voluto vedere prima, per chi aveva preferito raccontare e raccontarsi un’altra storia, e che, improvvisamente, pur di non riconoscere di aver sbagliato analisi, tende ad accreditare la tesi di un evento imprevedibile, sconvolgente, irrazionale.

Subito dopo, scattano le mosse successive. Diventa necessario demonizzare il vincitore, invariabilmente descritto come un pericolo per la democrazia. Anche qui la componente psicopolitica dell’excusatio è preponderante: siccome fino a due giorni favi avevano raccontato che il “cattivo” avrebbe perso, che sarebbe stato travolto, e invece ha vinto, allora devono presentarlo a tinte ancora più cupe, come un mascalzone, un reprobo.

In questo modo, non solo non si smentiscono, ma preparano altri mesi di campagna giornalistica “coerente” con gli svarioni che non hanno alcuna intenzione di ammettere. Si prenda proprio il caso Milei in Argentina: per tutta la campagna elettorale è stato descritto come un «liberista selvaggio», un «ultrapopulista», un pazzo furioso. E allora che si fa? Già nelle prime ore dopo il voto, si cominciano a prevedere sventure colossali. Repubblica ieri mattina si è portata avanti con il lavoro titolando su «assalti a market e ristoranti». Così, a urne appena chiuse. Figurarsi cosa potranno scrivere tra qualche mese.

Una volta demonizzato il vincitore, subito dopo si passa al “trattamento” mediatico degli elettori: al trionfatore “fascista” corrisponde un popolo invariabilmente descritto come rozzo, ignorante, analfabeta di andata (o di ritorno, quando va bene). Insomma, visto che non sono stati in grado di capire cosa accadeva nel cuore dell’elettorato prima del voto, dopo il risultato devono accreditare la tesi di un’onda nera, di una torsione irrazionale e quasi animalesca di una quota maggioritaria degli elettori.

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L’ALBA RADIOSA - Ma poniamo invece che a vincere sia stata la sinistra. Allora cambia tutto. Ex ante, bisogna descrivere l’alba radiosa di un nuovo cammino, un nuovo inizio (anzi, fa più figo scrivere un fresh start), la speranza che sconfigge la paura. E naturalmente – in questo caso – il medesimo popolo che prima era rozzo e bifolco, stavolta viene descritto come saggio e lungimirante. La stessa democrazia, drammaticamente in crisi se a vincere è la destra, torna a fiorire in caso di vittoria della sinistra: il meccanismo ha ben funzionato, le procedure sono state corrette, l’informazione è stata libera. E allora lo slogan è già pronto: «La sinistra riparta da...». E qui in Italia la frasetta, anzi la giaculatoria delle beghine progressiste, può essere completata a piacere: ripartire da Pedro Sanchez (anche se in Spagna ha governato a sinistra di Fratoianni), ripartire da Lula e dal suo veteromarxismo in salsa brasiliana, ripartire perfino da altri disastri sudamericani più o meno assortiti.

Ex post, però, se viene fuori che l’eroe democratico ha mal governato o è stato protagonista di un fallimento spettacolare, allora occorre sbrigarsi a trovare ogni sorta di giustificazione: è stato ostacolato dalle perfide opposizioni di destra, Washington ha remato contro, i malvagi populisti si sono riorganizzati, le fake-news in rete hanno avvelenato tutto. Oplà: il popolo che prima era saggio è ridiventato bambino e crede alle balle degli avversari.

È evidente che, in una gabbia mentale del genere, non c’è alcun posto non dico per la verità delle cose, ma nemmeno per un minimo di cronaca, per un’analisi disincantata, per la curiosità di farsi sorprendere da una circostanza inattesa, da qualcosa che possa smentire gli schemini precostituiti. Mai sciupare la narrazione con un po’ di realtà. 

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