C’è modo e modo di perdere: si può perdere un’elezione oppure - ed è ben più grave si può addirittura rischiare di perdere se stessi, di smarrire la bussola e l’identità. Cosa intendo dire? Per molti versi è assolutamente naturale prepararsi a perdere un’elezione politica dopo un lunghissimo ciclo di governo. È quanto accadrà, a meno di sorprese francamente improbabili, ai conservatori britannici, che governano il Regno Unito dal 2010. In 13 anni si sono succeduti cinque primi ministri dei Tories (David Cameron, Theresa May, Boris Johnson, Liz Truss, Rishi Sunak), ciascuno peraltro portatore di nuances differenti, a testimonianza di quanto siano ricchi e articolati quel partito e il movimento culturale ad esso collegato. Del resto, da sempre la politica britannica è punteggiata da tremende battaglie e da episodi di cannibalismo all’interno dei partiti principali: è nota, a questo proposito, la feroce battuta secondo cui a Westminster (che non ha forma di emiciclo, ma prevede tribune contrapposte per maggioranza e opposizione) gli avversari siedono davanti al primo ministro, mentre i “nemici” gli stanno alle spalle, alludendo alla tendenza all’accoltellamemto del premier da parte dello stesso partito che lo ha espresso.
Tra i conservatori, per qualche anno, solo il carisma fiammeggiante e il grano di follia di Boris Johnson avevano gestito (o almeno mascherato) divisioni profonde: tra pro Brexit e anti Brexit, tra liberisti thatcheriani e moderati pro intervento pubblico. Era fatale e fisiologico che prima o poi il ciclo finisse, e oggi appare a tutti scontato che le elezioni generali del 2024 saranno vinte - anzi stravinte - dai laburisti di Keir Starmer.
DAL CASO INDI...
Ma il guaio dei conservatori è che stanno perdendo l’anima e i princìpi. Prendi il caso della piccola Indi e già ti metti le mani nei capelli: certo, ha pesato la volontà dei tribunali, ma ha avuto un suo ruolo pure l’incapacità dei Tories di affrontare la questione dal lato giusto, che era quello di contestare il fatto che una decisione su una speranza di vita fosse sottratta alla famiglia e affidata a un braccio dello Stato.
Ancora, prendi Brexit. Dopo la vittoria referendaria del 2016, era compito dei conservatori credere in quell’esito, e quindi scommettere su un taglio di tasse e su un attacco alla burocrazia che facessero del Regno Unito qualcosa di ancora più distinto da Bruxelles, un hub capace di attrarre risorse e investimenti. E invece pure i conservatori, in ciò adeguandosi all’establishment culturale di sinistra, hanno vissuto Brexit in termini di danno da ridurre anziché come un’opportunità. E l’occasione è stata largamente sciupata.
Prendi ancora le tasse. Liz Truss, la premier arrivata a Downing Street prima di Sunak, aveva vinto le primarie interne su un programma di taglio thatcheriano della pressione fiscale. Ora si può discutere in eterno sul motivo per cui l’operazione non sia riuscita (errori suoi e del suo ministro dell’Economia, reazione eccessiva dei mercati, ostilità interne ed esterne al partito): ma è un fatto che il progetto sia naufragato.
E prendi infine l’immigrazione. Pure lì, nonostante tanti impegni, l’insuccesso è ormai sotto gli occhi di tutti, con dati inquietanti relativi all’immigrazione illegale e pure rispetto a quella legale. In altre parole, quelli che erano stati pensati come paletti normativi rigidi per evitare che - pur nella legalità - i numeri dei nuovi arrivati diventassero soverchianti sono stati travolti dalla realtà.
...ALLA BRAVERMAN
E ieri è arrivata l’ultima botta, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, con il licenziamento del ministro degli Interni Suella Braverman, “colpevole” di aver criticato la timidezza della polizia londinese rispetto agli eccessi, alle intemperanze, in qualche caso alle derive inaccettabili delle manifestazioni pro Palestina. Ora, è importante sapere chi sia la Braverman per comprendere la portata della questione. Ecco, è tutto tranne che una xenofoba: è una signora 43enne nata da genitori indiani, a loro volta transitati in Kenya e alle Mauritius e poi arrivati in Uk negli anni ’60. Nella Londra di oggi, a una persona così non è più consentito fare dichiarazioni politicamente scorrette sugli eccessi delle manifestazioni anti-Israele. Parliamoci chiaro. In tempi - diciamo così - di pace, l’argomento usato da molti conservatori contro la Braverman sarebbe stato da applaudire: un conservatore deve difendere il free speech altrui a maggior ragione in caso di dissenso, se cioè non condivide il pensiero degli avversari.
Non c’è dubbio, in teoria. Ma in pratica, oggi, come fai a non vedere che cacciare un ministro per aver posto il problema dell’estremismo fondamentalista significa offrire il suo scalpo alle curve islamiste, dando l’idea di un drammatico cedimento culturale? Mettiamola così: c’è da dubitare che Winston Churchill, nella Londra del 1940, avrebbe cacciato un membro del War Cabinet che avesse - che so - criticato un’eventuale sortita di alcuni ammiratori britannici del Terzo Reich. Sto estremizzando, me ne rendo conto: ma fa male al cuore constatare come un pezzo consistente del mondo conservatore Uk sembri poco consapevole del campo di battaglia politico e culturale in cui oggi siamo tutti chiamati a lottare. In tutto questo, è un peccato che una simile sorte incomba sulle spalle di Rishi Sunak, percepito un po’ da tutti come persona seria e competente. Il premier britannico - di recente - ha anche dato prova di coraggio, ad esempio sfidando le follie green. Ma le sue buone qualità sembrano non bastare: la salita è troppo ripida, in tutti i sensi. La stessa scelta - ieri - di richiamare in servizio l’ex premier David Cameron come ministro degli Esteri (ha preso il posto di James Cleverly, a sua volta chiamato a rimpiazzare la Braverman agli Interni) non ha creato entusiasmo. Intendiamoci: Cameron gode di meritato rispetto, ma è il protagonista di una stagione passata, chiusa con il referendum su Brexit del giugno ’16, dopo il quale rassegnò le sue dimissioni. Richiamarlo oggi non trasmette un’idea di futuro né un progetto comprensibile.
Morale. Ci riflettano i conservatori in tutto il mondo, e pure in Italia: se - per un complesso di circostanze - un partito si allontana progressivamente dalle ragioni e dai sentimenti dei suoi elettori, e se lo fa proprio sui temi decisivi (tasse, immigrazione, sicurezza), è ben difficile che prima o poi il conto non arrivi.