Piromani, la stretta: pene più dure, il pugno di ferro del governo
Pene più dure per i piromani. Processi di mafia salvi, dopo che una sentenza della Cassazione ne aveva messi a rischio alcuni importanti. I poteri d’intercettazione già usati contro la mafia estesi alle indagini per sequestro di persona a scopo di estorsione, al traffico illecito di rifiuti e al terrorismo. Il governo, che aveva iniziato la propria attività ad ottobre, nel primo consiglio dei ministri, varando il decreto che vieta i benefici penitenziari ai detenuti per reati “ostativi” (cioè particolarmente gravi) che non hanno collaborato con la giustizia, domani chiuderà i lavori prima della pausa estiva con altri provvedimenti finalizzati al mantenimento dell’ordine, scritti d’intesa tra palazzo Chigi e il dicastero di Carlo Nordio.
Dalle bozze del decreto “Giustizia e cultura” (ribattezzato così perché prevede anche la riorganizzazione del ministero di Gennaro Sangiuliano) si apprende che l’esecutivo intende cambiare l’articolo 423-bis del Codice penale, quello che oggi punisce i responsabili degli incendi boschivi con la reclusione da quattro a dieci anni in caso di dolo, e da uno a cinque anni se l’incendio è causato per colpa. Il nuovo testo aumenta la pena minima a sei anni nel primo caso e a due nel secondo.
Inoltre, nell’eventualità del dolo, la pena prevista verrà aumentata da un terzo alla metà quando il fatto sarà commesso «al fine di trarne profitto per sé o per altri o con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti all’esecuzione di incarichi o allo svolgimento di servizi nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi boschivi». A conti fatti, si arriva ad una pena massima di quindici anni.
"Vanno fucilati sul posto": Feltri estremo, per chi vuole il "metodo Napoleone"
Molto più complicato è l’intervento sui processi per mafia. Il 21 settembre scorso la Corte Cassazione (nel cui collegio, come semplice consigliere e non come relatore, sedeva Giuseppe Santalucia, attuale presidente dell’Anm) ha varato una sentenza con la quale, in sostanza, dichiara illegittime le intercettazioni per indagini sulla criminalità organizzata disposte nei confronti di un imputato che non era accusato di associazione mafiosa, bensì di un reato commesso con finalità o metodo mafioso, dunque per agevolare Cosa nostra e non dall’interno di essa. Per usare le parole di Giorgia Meloni, «un omicidio commesso avvalendosi di modalità mafiose, o al fine di agevolare un’associazione criminale, non sarebbe un delitto di criminalità organizzata, secondo la Cassazione».
L’ALLARME DEI PM
Una “novità” che, applicata a tutti i casi simili, avrebbe potuto avere conseguenze enormi. Molte procure hanno segnalato che il criterio dettato dagli ermellini rischia infatti di far diventare inutilizzabili le intercettazioni su cui si basano importanti processi per mafia tuttora in corso, mandandoli all’aria. La premier ha raccolto l’appello, annunciando un intervento per evitare «effetti dirompenti».
La soluzione è il primo articolo del decreto in agenda domani, che però va oltre l’“interpretazione autentica” delle leggi in vigore. La nuova norma estende infatti l’uso di alcuni strumenti tipici della legislazione antimafia, come le intercettazioni ambientali, ad altri reati, tra i quali, oltre ai sequestri di persona a scopo di estorsione, al traffico illecito di rifiuti e al terrorismo, quelli commessi con finalità o metodo mafioso. Le procure, dunque, oltre a continuare ad usare gli strumenti che hanno avuto sinora nella lotta alla criminalità organizzata, potranno giovarsene per contrastare altri reati. Una norma transitoria applica le nuove regole ai processi in corso, impedendo che questi saltino in seguito alla sentenza della Cassazione. Lo stesso decreto serve al governo anche per risolvere un problema di sicurezza che si trascinava da tempo.
Le 140 procure italiane non hanno archivi sicuri in cui conservare le intercettazioni e quasi sempre sono costrette a rivolgersi a società private, che talvolta hanno addirittura sede all’estero. Il risultato è che oggi il materiale sensibile rappresentato dall’enorme mole di intercettazioni ordinate ogni anno (95.379 solo nel 2021) è sparso un po’ ovunque, anche fuori dai confini nazionali, conservato senza i necessari criteri di sicurezza, a rischio di intrusione da parte dei pirati informatici e spesso in cambio di un costo molto alto per il contribuente .
Il governo ha deciso quindi di portare tutte le intercettazioni sotto il controllo di un gestore pubblico, che sarà lo stesso ministero della Giustizia. Ci vorrà un po’ di tempo, vista la complessità tecnica dell’operazione, e questa norma è solo il primo passo, ma la volontà è ricondurre, nel giro di pochi mesi, tutti quei file riservati all’interno di pochissimi server «interdistrettuali», quattro o al massimo cinque in tutta Italia, chiamati «Infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni», dipendenti dal ministero di via Arenula e caratterizzati dal massimo livello di sicurezza informatica e garanzia della privacy. L’obiettivo è anche ridurre e rendere omogenei i prezzi del servizio, oggi imposti dalle imprese private, che di fronte a certe procure operano in una situazione di sostanziale monopolio. Nulla, assicura il governo, cambierà nel lavoro dei magistrati, che continueranno ad avere le loro stanze di ascolto delle intercettazioni, collegate per via telematica con i server gestiti dal ministero.