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Biden, schiaffo su gay e quote nere: la sentenza della Corte suprema

Corrado Ocone
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 Più passano le ore e più appare rivoluzionaria la sentenza con la quale la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale le quote su base razziale per l’ammissione nelle università del Paese. Sia beninteso, qui la “rivoluzione” è propriamente una “restaurazione”, concerne cioè lo stop messo dai giudici ad una deriva che stava portando a tradire quei principi fondamentali di uguaglianza su cui si basa la Costituzione più liberale e democratica del mondo. Principi sanciti nel XIV emendamento, approvato dopo la Guerra di Secessione, secondo i quali l’idea di cittadinanza è universale e si applica a tutti i cittadini americani indipendemente dal colore della pelle, dalla razza o dalla nazione di provenienza.

 

 

Tutto è partito da due cause intentate da parte di una associazione studentestesca all’Harvard University e all’Università della Carolina del Nord, le cui prassi incriminate sono però ormai diventate una consuetudine in quasi tutto il mondo accademico americano, compreso quelle delle università più prestigiose in cui si forma l’élite del Paese. In sostanza, i criteri di ammissione non sono più paritetici e basati sul merito individuale, ma prevedono delle “facilitazioni” per chi ha un’ascendenza afroamericana o, in subordine, latino-americana. In poche parole, una mezza schiappa di colore, per il solo fatto di essere tale, ha maggiori possibilità di accedere all’istruzione superiore di un secchione con l’ “handicap” di essere nato bianco. Il tutto in nome di una “diversità” male intesa, che si riconduce in ultima istanza ad un senso di colpa occidentale a cui fa da contraltare speculare un sempre più diffuso vittimismo degli americani non wasp (cioè non bianchi, anglosassoni e protestanti).

 


INGIUSTIZIA
Nessuno qui nega che la discriminazione possa essere, e in alcuni casi sia, ancora presente nella società americana, e che essa debba essere combattuta attraverso la diffusione a livello sociale di una consapevolezza sempre più diffusa dei principi di uguaglianza. Quel che i giudici hanno però voluto dirci è che non è certo con una discriminazione al contrario, con un razzismo col segno capovolto, che si combattono le ingiustizie sociali, bensì solo affermando l’universalità e non derogabilità dei principi costituzionali. La sentenza della Corte è una vittoria contro la cultura progressista e woke, che ha affermato negli anni la necessità di “azioni positive” per superare le discriminazioni per via legale. Essa è però più radicalmente una vittoria della democrazia liberale tout court, la quale per principio deve basarsi su principi formali e non sostanziali di uguaglianza.


È la legge, e solo la legge, che deve essere uguale per tutti, e proprio per garantire la libera diversità dei singoli. La canea progressista, con gli Obama e un pur di solito pacato Biden in prima fila, è subito montata dopo la sentenza della Corte, ma più per motivi di bandiera e con scarsi argomenti che non con cognizione di causa. Le “quote razziali”, fra l’altro, hanno avuto il merito di evidenziare in questi anni i corti circuiti a cui va incontro la cultura woke, che diventa razzista volendo combattere il razzismo e vuole promuovere la “diversità” annullando l’unico e solo elemento che può garantirla: la tutela della genialità e unicità di ogni essere umano. Il quale va rispettato nelle sue scelte, le quali per definizioni possono esse sì, e solamente esse, essere discriminanti. Significativa in tal senso un’altra pronuncia della Corte di ieri. I giudici hanno infatti ribadito che non si può imporre ad un singolo di fare qualcosa contro la sua volontà e il suo credo religioso, come è successo ad un web designer della California che era stato incriminato per essersi rifiutato di creare un sito celebrante il matrimonio di una coppia dello stesso sesso. In definitiva, si può dire che finalmente c’è un giudice (liberale) a Berlino, pardon a Washington. 

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