Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica, nel 1948, non ha nominato alcun senatore a vita. Il suo successore, Luigi Einaudi, ben otto: da Guido Castelnuovo a Luigi Sturzo a Umberto Zanotti Bianco, tutte nomine azzeccate e accolte con entusiasmo a parte quella di Arturo Toscanini. Il direttore d’orchestra, colto alla sprovvista, fu «turbatissimo» e con un telegramma inviato al Colle si disse «costretto a rifiutare questo onore», tuttavia è annoverato tra i 38 senatori a vita che hanno servito il nostro Paese, è dunque membro di quel prestigioso club di personalità che rispondono all’articolo 59 della Costituzione: «Il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Con l’equivoco dell’aggettivo “sociale” per cui, di fatto, nel corso del tempo sono stati inseriti anche i politici di professione nella lista di cui già fanno parte tutti gli ex presidenti della Repubblica italiani.
Il primo dunque fu Castelnuovo, “matematico dal moto perpetuo” che Einaudi volle nel ’49 per i suoi meriti nel campo scientifico; l’ultima è la senatrice Liliana Segre, che non ha bisogno di presentazioni, in carica dal 19 gennaio 2018, unica scelta finora compiuta da Sergio Mattarella (in questi giorni, dopo l’addio al leader Silvio Berlusconi, tra i forzisti è tanta la voglia di vedere Gianni Letta su quei banchi bordati di velluto rosso). In mezzo ci sono gli altri 36 senatori a vita, raccontati e analizzati da Paolo Armaroli in un corposo volume che andrebbe fatto studiare a chi vuole capire la nostra storia parlamentare. Il libro, presentato ieri a La Sapienza di Roma, s’intitola “I senatoria vita visti da vicino – da Andreotti a Segre, da Fanfani a Spadolini” ( La Vela, 450 pagg.) e partendo dallo Statuto Albertino arriva fino a oggi e al ruolo che questi particolari frequentatori di Palazzo Madama hanno avuto nel tempo, specie in alcuni momenti cruciali quando i destini dei governi sono rimasti appesi al voto della sparuta truppa dei senatori per sempre. Armaroli, professore emerito di Diritto Pubblico comparato nonché di Storia delle Costituzioni all’Università, conosce bene la politica: deputato nella XIII legislatura, è stato capogruppo di An in commissione Affari costituzionali e componente della Giunta per il regolamento presieduta da Violante e della Bicamerale D’Alema, e stavolta si è andato a spulciare ogni iniziativa dei 38 titolari di seggio vitalizio. Ne è venuto fuori un libro pieno di aneddoti, ma anche attuale in un momento in cui le riforme sono al centro dell’agenda governativa.
QUATTRO CATEGORIE
In particolare, l’autore distingue i senatori a vita in quattro categorie: ci sono i senatori a fine di vita (anche detti a morte) per avere messo piede in Senato nell’ultimissima fase dell’esistenza, o per non averlo fatto proprio; i “fantasmi”, cioè gli assenteisti più o meno cronici; i benemeriti del Senato, la cui presenza, invece, si è notata e ha recato beneficio all’istituzione; gli “abusivi” del Senato, vale a dire i professionisti della politica, coloro che erano già in Parlamento al momento della nomina, quindi non espressione della società civile.
Del primo gruppo fa senz’altro parte Carlo Alberto Salustri, più conosciuto come Trilussa, l’erede di Belli, poeta dialettale romano nominato dal presidente Einaudi e rimasto in carica solo 20 giorni: dal primo dicembre 1950 al N kb 21 dello stesso mese. Trilussa, infatti, era già malato grave e quando gli andarono a comunicare la notizia non rinunciò a una battuta delle sue: «Io senatore a vita? Senatore a morte!».
Il liberale Einaudi nel ’50 volle a Palazzo Madama lo scultore Pietro Canonica, da lui molto stimato. Nello stesso anno entrò lo storico Gaetano De Sanctis, uno dei dodici docenti che nel ’31 non giurò fedeltà al fascismo e perciò fu costretto ad abbandonare la cattedra: parteciperà ai lavori del Senato finché la salute glielo permetterà (era malato e cieco) mostrando civismo e attaccamento al dovere. Celebre il suo discorso nella seduta del 25 gennaio del ’52 quando impartì una lezione di libertà proprio mentre era in discussione la cosiddetta legge Scelba. Il cattedratico, che molto si spese per l’istruzione, perla scuola sia pubblica che privata e i concorsi per i docenti, è un esempio da annoverare tra i “benemeriti del Senato” al pari dell’economista Pasquale Jannaccone, del quale si ricorda il grande attivismo nella commissione Finanze e Tesoro e nella Bilancio e i tanti suoi interventi nei dibattiti sulla fiducia ai governi neonominati.
Difatti, i senatori a vita hanno quasi sempre espresso il loro voto sulle mozioni di fiducia, dove il sì ha prevalso decisamente sul no al punto da risultare determinanti durante il secondo governo Prodi (in commovente unità d’intenti votarono tutti, dicasi tutti, a favore della mozione di fiducia, così il quorum fu raggiunto), ma quasi mai hanno motivato il loro voto.
Così, il 22 agosto del ’53 un liberale critico come Jannaccone votò per il governo Pella perché il presidente del Consiglio aveva messo gli uomini da lui prescelti nei posti ai quali li giudicava più adatti, senza tanti riguardi per la partitocrazia. L’anno successivo, invece, l’economista si astenne sul governo Scelba, turandosi il naso, come diceva Montanelli. E lo stesso fece sulla mozione di fiducia al primo governo presieduto da Antonio Segni, mentre nel ’57 accordò la fiducia al monocolore di Adone Zoli.
PERTINI AUDACE
Benemerita è la Segre (astenuta sul Conte1, sì al Conte2, in missione per la fiducia al governo Meloni) e benemerito perché in linea con i principi dell’articolo 54 della Costituzione che parla di incarico senatoriale da svolgere con «disciplina e onore» è stato l’archeologo del Mezzogiorno Zanotti Bianco, anch’egli della covata di Einaudi. Nel gruppetto dei virtuosi Armaroli inserisce la professoressa Elena Cattaneo, della truppa schierata da Giorgio Napolitano (con lei Monti, Abbado, Piano e Rubbia), la più giovane senatrice avita in quanto nominata quando non aveva ancora compiuto 51 anni. E del gruppo è l’unica, si legge, ad avere preso assai sul serio la sua nuova attività: Abbado, già molto malato, è deceduto pochi mesi dopo la nomina, mentre gli altri due, Renzo Piano e Carlo Rubbia, in ragione dei tanti impegni extrapolitici, rientrano a pieno titolo nel girone dei “fantasmi” perché si materializzano solo in rarissime occasioni (più il primo del secondo). Il presidente Giovanni Gronchi nominò un solo senatore a vita: l’avvocato Giuseppe Paratore nel ’57, già segretario di Francesco Crispi. Ad Antonio Segni si deve la scelta di Cesare Merzagora, Ferruccio Parri, Meuccio Ruini; mentre il successore, Giuseppe Saragat, che restò al Colle dal ’64 al ’71, nominò Vittorio Valletta, Eugenio Montale (in carica per 14 anni), Giovanni Leone, il quale gli subentrerà alla presidenza della Repubblica e a sua volta nominerà senatore a vita Amintore Fanfani.
Quando toccò a Sandro Pertini («l’iradiddio», lo definisce Armaroli) si tentò una forzatura dell’articolo 59.
Il nuovo capo dello Stato decise che i senatori a vita prescelti d’ora in poi possono essere cinque, per cui oltre ai due già in carica, aggiunge in un primo momento Leo Valiani, Eduardo De Filippo e la prima donna Camilla Ravera, una femminista, comunista, espulsa dal Pci. Ma poi dilaga e il 18 luglio 1984, a meno di un anno dal settennato, nominò Carlo Bo e Norberto Bobbio. Due nomi sui quali non c’è nulla da eccepire. Il presidente Francesco Cossiga volle il seggio a vita per Spadolini (che era già seconda carica dello Stato), Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, Francesco De Martino e Paolo Emilio Taviani. Oscar Luigi Scalfaro, invece, nessuno. Carlo Azeglio Ciampi consacra senatori a vita Rita Levi Montalcini (benemerita, entrò in Senato a 92 anni e non mancò mai una seduta), Emilio Colombo, Mario Luzi (senatore fin di vita), Giorgio Napolitano e il compianto Sergio Pininfarina.