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Riforma della giustizia? Se le toghe si sentono guardiane della virtù

 Toghe

Francesco Carella
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Che la riforma della giustizia targata Nordio venga presentata come un attentato alla democrazia da parte del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle non deve stupire più di tanto. Gli uni e gli altri agiscono in perfetta continuità con la loro formazione culturale là dove la sfera dell’autonomia politica - uno dei princìpi del costituzionalismo liberale - viene sacrificata sull’altare di due totem populisti ovvero «l’onestà e la diversità morale». Si obietterà che la politica intesa come «lo spazio autonomo entro cui il potere legittimo ha la facoltà di scegliere fra soluzioni alternative» attraversa momenti critici in tutte le democrazie occidentali. Stiamo parlando di un cambiamento che ha preso corpo negli ultimi decenni in ragione di due fenomeni, l’uno legato ai processi di globalizzazione che costringono sempre più le leadership nazionali a cedere quote di sovranità, l’altro riguarda ciò che il sociologo Alessandro Pizzorno ha definito «resa dell’autorità sociale alla legge».

 


Infatti, la perdita di autorità da parte di soggetti un tempo in grado di dettare norme e farle rispettare ha comportato una progressiva espansione del raggio d’azione dei giudici a detrimento dei Parlamenti e dei Governi. Tutto ciò è accaduto, dove più e dove meno, in tutti i Paesi occidentali. In Italia, però, tali cambiamenti assumono fin da subito un carattere abnorme. Le ragioni della nostra “originalità” sono storicamente rintracciabili in quella torsione etico-giudiziaria della battaglia politica che prende forma nei primi anni Ottanta del secolo scorso, allorquando l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, riscrive il paradigma del suo partito sostituendo l’antagonismo di classe, come motore della storia, con la diade onestà/disonestà.

 


Ci si interroga ancora oggi su quanto Berlinguer fosse consapevole che il trasferimento del conflitto politico sul terreno morale alla lunga avrebbe avuto conseguenze devastanti nella vita democratica del Paese. Infatti, quella scelta ha creato le condizioni per l’affermazione del populismo (i 5 Stelle non sono nati in Italia per caso) e ha prodotto una pericolosa alterazione dei rapporti fra i poteri dello Stato. I magistrati ad un certo punto si autopromuovono sul campo come «guardiani della virtù» sia degli italiani che dei loro legittimi rappresentanti in Parlamento. Talché la figura del funzionario della legge finisce con l’occupare un ruolo centrale nella vita pubblica del Paese giungendo addirittura a sindacare sui modi e sui tempi dell’azione politica. A coloro che in questi giorni accusano il Guardasigilli di minare, con la sua riforma, le basi della nostra Carta vale la pena di ricordare che un cardine del pensiero liberale è che ogni potere, compreso quello giudiziario, deve essere, nel suo esercizio, limitato. Individuare tale limite significa conciliare «la responsabilità del magistrato con la necessità di assicurarne l’imparzialità, elemento essenziale per continuare a giustificare le sue garanzie di indipendenza». Il resto è pura demagogia.

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