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Silvio Berlusconi, il liberale pop. Ma la "rivoluzione" è rimasta un sogno

Corrado Ocone
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Quando Silvio Berlusconi scese in campo le culture politiche che avevano dato il tono alla Prima Repubblica erano già profondamente in crisi. La crisi era soprattutto di quella comunista, che aveva visto gradualmente infrangersi, sotto i colpi della storia, tutte le proprie illusioni, non ultima quella di potersi realizzare come una “terza via” (che non esiste) fra lo stalinismo e la socialdemocrazia. Achille Occhetto, che pure nel 1991 aveva cambiato nome al Partito, non fece i conti con la storia né fu capace di una serie autocritica. Anche la cultura democristiana era ormai in evidente crisi, sia per la diffusa secolarizzazione dei costumi nella società sia perché in qualche modo aveva tratto la sua forza dall’opporsi al Partito Comunista. Quanto alle culture laiche esse, pur avendo espresso personalità significative ed esercitato anche una certa influenza, non avevano mai avuto il coraggio di affrancarsi del tutto dall’ipoteca esercitata sul nostro Paese dai catto-comunisti (limitandosi, tranne forse il Partito liberale nel periodo di Malagodi, alla funzione di supporto esterno dell’una o dell’altra cultura politica).

 


L’ASSENZA - Quel che mancava in Italia, e che rendeva il nostro Paese palesemente diverso dagli altri occidentali, era una forte e coesa cultura liberale e un corrispondente “partito liberale di massa”. Erano temi che cominciavano a circolare nel dibattito pubblico, agli inizi degli anni Novanta. E non mancava chi, a sinistra, voleva dare una sterzata liberale ai propri partiti di riferimento, un po’ per opportunismo e un po’ per quella confusione che vigeva già allora e portava a identificare i liberali con i liberal (senza la i). Chi dimostrò invece di avere subito le idee chiare fu, sia culturalmente sia politicamente, proprio Silvio Berlusconi. Con lui, il liberalismo, almeno da un punto divista teorico, rinasceva a nuova vita, o nasceva del tutto, nel nostro Paese. Certo, Berlusconi ebbe la fortuna di incontrare sulla propria strada e di valorizzare intellettuali del calibro di Antonio Martino, Giuliano Urbani, Piero Melograni o Marcello Pera, che gli dettero non poche dritte, ma tutta sua fu l’idea di trovare nel liberalismo classico la cultura politica che meglio poteva supportare quei vasti ceti medi produttivi che si sentivano vessati e in ogni modo ostacolati dalla palude amministrativa e statalistica e dal prepotere sindacalista che si erano in anni e anni sedimentati in Italia. E che la sinistra, ora che si sentiva vicina al potere (grazie anche alle inchieste di Tangentopoli che avevano usato un occhio di riguardo presso la sua classe dirigente), non avrebbe certo smantellato. Da qui nasce l’idea della “rivoluzione liberale”, simbolica ed evocativa ma al tempo stesso sostanziata da una solida tradizione di cultura antistatalista (per lo più non italiana).
I nomi di Hayek, Popper e degli stessi cattolici liberali come Don Sturzo, per anni ostracizzati, divennero di colpo centrali nel dibattito pubblico. Che quella “rivoluzione” sia rimasta solo uno slogan è facile oggidirlo, dimenticando le difficoltà che a realizzarla nel profondo esistevano in un Paese che in decenni di statalismo, poco importa se fascista o repubblicano, aveva introiettato abitudini e modi di pensare che di liberale avevano poco.
Persino fra gli stessi imprenditori, almeno quelli più grandi e rappresentativi, che aspettavano e aspettano dallo Stato quei sussidi alla propria attività da cui non sanno o non possono affrancarsi del tutto. Gli eventi che costellarono la lunga vicenda politica di Berlusconi se ne attutirono col tempo la spinta liberista, non smorzarono certo altre tre forti caratteristiche liberali della sua personalità: il garantismo, l’atlantismo e l’anticonformismo. Berlusconi, in un primo tempo, aveva accompagnato, coi suoi media, Mani Pulite, ma presto capì, sulla sua pelle, che quella dei magistrati non era una battaglia di moralizzazione della vita pubblica bensì una campagna politica a tutti gli effetti e a senso unico.

 


 

A WASHINGTON Quanto all’atlantismo, oggi qualche idiota parlerà del “putinismo” del nostro, dimenticando che, se una costante c’è stata nell’azione dei governi di Berlusconi, è proprio all’assoluta fedeltà a Stati Uniti e a Israele, che lui non a torto considerava i modelli più riusciti della democrazia occidentale, che bisogna guardare. L’adesione con Blair alla politica di Bush, o la standing ovation ricevuta al congresso a Washington qualche anno dopo, ne sono la prova eloquente. Quanto infine all’anticonformismo e alla lotta contro i tabù del “politicamente corretto”, chi più di lui, compresi gli eccessi che si perdonano ai grandi, si può dire di esserne stato l’alfiere? In conclusione, è lecito sottolineare che Berlusconi è restato fedele al suo liberalismo fino all’ultimo. Troncando sul nascere, ad esempio, ogni tentazione “centrista” presente nel suo partito. E capendo che oggi la battaglia liberale, se non proprio la “rivoluzione”, la si può fare solo nello schieramento di destra.

 

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