«Hai il diritto di tacere. Qualunque cosa dirai potrà essere usata contro di te in tribunale. Hai diritto a consultare un avvocato...». Chi di noi non ha sentito questa frase guardano un film d’azione americano? La frase è prevista da una legge approvata negli Stati Uniti nel 1966 che stabilisce per tutti i sospettati di un reato l’obbligo di essere informati dei loro diritti prima di venire interrogati. Ora anche in Italia chi è imputato in un processo penale, o anche solamente sottoposto ad indagini, dovrà essere sempre avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali. La Corte costituzionale, con una sentenza pubblicata ieri, (redattore Francesco Viganò), ha sancito che l’indagato o l’imputato non hanno alcun obbligo di collaborare con le indagini, dichiarando illegittimi alcuni articoli del codice penale, come il 495 «falsa attestazione o dichiarazione al pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o altrui».
La questione era stata sollevata dal tribunale di Firenze ed era relativa a delle dichiarazioni, poi rivelatesi false, ad un poliziotto. L’indagato, accompagnato in Questura per l’identificazione, aveva dichiarato di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era invece emerso che aveva già due condanne. Il giudice aveva osservato che la giurisprudenza richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali, ad esempio se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali.
DIRITTO DI DIFESA
Il tribunale aveva chiesto alla Corte se questa disciplina fosse compatibile con il diritto al silenzio, che è parte del diritto di difesa riconosciuto dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni unite. La Corte ha sottolineato come il diritto al silenzio operi ogni volta che l’autorità «ponga alla persona sospettata o imputata domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna».
La circostanza, quindi, che la persona interrogata sia già stata condannata potrebbe indurre la polizia a disporre il suo arresto quando questo è solo facoltativo. Oppure, potrebbe determinare un inasprimento della pena, venendo utilizzata per valutare la pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di misure cautelari, del riconoscimento di circostanze attenuanti. La conoscenza del soprannome della persona, infine, potrebbe essere di grande importanza a fini investigativi, ad esempio in presenza di intercettazioni in cui il soggetto venga indicato dai complici con uno pseudonimo. In altri termini, l'unico obbligo è indicare all’autorità solo le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita). Per garantire una tutela effettiva a questo diritto è necessario fornire un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere, escludendo la punibilità nel caso in cui si risponda il falso senza essere stati debitamente avvertiti di questa facoltà.