Già fatto. Hanno impiegato poco i giudici Marco Tremolada, Mauro Gallina e Silvana Pucci a scrivere e depositare le 197 pagine che motivano la sentenza di assoluzione per Silvio Berlusconi più 28 coimputati accusati, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza, false informazioni ai pm, riciclaggio e favoreggiamento della prostituzione: in altre parole il Ruby Ter, tramontato (diciamo pure distrutto) il 15 febbraio scorso con un’assoluzione con formula piena alias perché «il fatto non sussiste» (il fatto criminoso non è accaduto) e quindi, insomma: non è mai esistita nessuna corruzione in atti giudiziari. Tre mesi fa, per deciderlo, impiegarono solo due ore di camera di consiglio, e già questo giustificava quantomeno una domanda: serviva un intero processo, per capirlo? Non si poteva già intuire, per esempio, in udienza preliminare?
Chiamasi domande retoriche, soprattutto se la risposta corrisponde precisamente alla tesi difensiva sempre sostenuta dai legali di Silvio Berlusconi che però secondo i pm dicevano evidentemente sciocchezze. A chiarire ogni equivoco, il 15 febbraio scorso, intervenne anche una nota inviata dal presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia: tutto il processo era, ed è stato, un errore della procura, comprendente quindi anche il pm Tiziana Siciliano che subito però disse che «rimaniamo convinti che i reati ci siano stati». Le dispiacerà due volte, quindi, l’aver lavorato fuori ufficialmente dallo stato di diritto, salvo ricorso. In sintesi, i processi Ruby (che sono stati tre, cui si sommano mille diramazioni sparse per competenza in giro per l’Italia) sono stati sbagliati da subito: le testimonianze delle ragazze presuntamente corrotte, infatti, non potevano essere vagliate perché non potevano «essere considerate testimoni», bensì dovevano eventualmente essere indagate dall’inizio (11 anni fa) con ovvia assistenza dei loro avvocati. Non erano testimoni, quindi i reati non esistevano per definizione: solo un testimone può rendere falsa testimonianza, e di conseguenza non può esistere «corruzione in atti giudiziari» se non esiste un testimone che menta a un pubblico ufficiale.
E non sono cavilli. Ascoltare le ex ospiti delle serate di Arcore (tra queste Karima El Mahroug, «Ruby») è stata una grave omissione di garanzia che ha pregiudicato tutto il processo e ha cancellato ogni accusa. Come si legge, la sentenza ha riparato «in via postuma» gli effetti di una «mancata assicurazione di una garanzia fondamentale», il diritto alla difesa e quindi anche al silenzio, il tutto con un’inutile e vacuo dispendio «energie processuali». Sul procedimento ha inevitabilmente pesato l’accoglimento di un'istanza degli avvocati Federico Cecconi e Franco Coppi secondo la quale le 21 ragazze imputate erano state sentite in precedenza non legittimamente come testi (non assistite da avvocati, e senza la facoltà di non rispondere) e quindi non fu neppure legittimo ipotizzare una loro falsa testimonianza, e tantomeno altri reati compiuti da pubblici ufficiali «corrotti». E senza corrotti non esiste «l'ipotizzato corruttore», ovviamente.
Ha detto l’avvocato Cecconi: «La sentenza evidenzia criticità comuni all'intero filone partito dal Rubygate nel 2011, in quanto nei vari procedimenti sono state interrogate persone senza le dovute garanzie difensive». L’errore scolastico della pubblica accusa ha fatto sì che i giudici, nelle motivazioni, abbiano dovuto spendere pagine e pagine solo per descrivere il crollo procedurale dell'intero impianto accusatorio: senza neppure entrare nel merito delle imputazioni che parlavano di 10 milioni di euro pagati dal Berlusconi per comprare la reticenza delle ragazze, le cosiddette «olgettine», chiamate così perché in parte abitavano in via Olgettina, vicino a Milano Due. In altre pagine, invece, si elencano poi anche gli indizi, le intercettazioni, le testimonianze e documenti che avrebbero dovuto portare la Procura (ossia, all’inizio, Ilda Boccassini, Pietro Forno e Antonio Sangermano) a iscrivere le ragazze come già indagate per corruzione: questo però prima che, dal 2012, si sedessero invece sul banco dei testi.
Anche i giudici di quei dibattimenti- scrive ora il Tribunale - dovevano porsi la questione: «Se le imputate fossero state correttamente qualificate, si sarebbe potuto discutere della configurabilità» dei reati di induzione a false testimonianze «nei confronti del solo Berlusconi» oppure una corruzione in atti giudiziari: gli indizi non mancavano in particolare per «Ruby» da parte dell'ex presidente del Consiglio. Ruby al telefono ha detto ogni cosa, con certo compiacimento, e già nell'ottobre del 2010 parlava o straparlava a parenti e amici della presunta promessa da parte di Berlusconi di 5 milioni di euro se lei avesse dichiarato il falso. Poi, nel gennaio 2011, c'erano state le convocazioni delle giovani ad Arcore, e tra gli elementi indiziari c’erano anche le dichiarazioni di Imane Fadil che parlò di una rete di contatti per comprare il suo e loro silenzio. Insomma, tutte quelle ragazze dovevano essere indagate perché «la ricerca della prova segue l'iscrizione della notizia di reato» e non viceversa. Ovvio. Invece, per l'aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, le iscrizioni nel registro degli indagati all’epoca non erano necessarie (va detto che questo confermarono anche due giudici in udienza preliminare) e quindi le testimonianze a loro dire erano pienamente utilizzabili. Traduzione pratica: potrebbero ricorrere in Appello, tanto per non ammettere una sconfitta che più cocente non potrebbe essere.