Claudio Durigon, la promessa: "In pensione dopo 41 anni di lavoro"
«A calcio giocavo da stopper, poi mediano di copertura. Ero tamugno, me la cavavo. Latina, Juve Stabia, sono arrivato alla C2, ho lasciato a 26 anni riconsegnando gli assegni post -datati perché mi ero stufato. Sceso in Promozione, la palla non era mai a terra, sempre palloni in aria, lanci lunghi, poca concretezza. Parliamo di tanti chili fa...».
La politica del rilancio non le garba?
«Ecco sì, penso che abbia stancato gli italiani e che questo governo sia un’occasione imperdibile per mettere le cose a terra, come si dice».
E le tensioni tra alleati, dal caso Donzelli a quello Piantedosi?
«Ho fatto parte di un governo spaccato, quello con i grillini. Alla fine la responsabilità della rottura è caduta solo su Salvini, ma era tutta la Lega che lo implorava di staccare.
Non si riusciva ad andare avanti».
Perché?
«I grillini non tolleravano che li avessimo sorpassati e doppiati alle Europee. Di Maio, che allora era il loro vero capo, non riusciva a governarli. Conte era fuori controllo».
Ribaltamenti di forze ci sono stati anche nel centrodestra...
«Meglio gestiti. Le garantisco che al confronto oggi il dibattito interno alla maggioranza è acqua fresca. Si va avanti e lo si capisce proprio dall’opposizione, violenta quanto vuota di contenuti».
Claudio Durigon non vede molte nubi all’orizzonte. «Sarà che sono euforico perché il mio Milan è approdato ai quarti di finale di Champions League dopo undici anni», scherza il senatore leghista, legato al leader del Carroccio, Matteo Salvini, dalla fede calcistica almeno quanto da quella politica. Per il partito presidia la zona calda, quella del confronto con i sindacati e le realtà produttive, l’Italia vera insomma, attualmente come sottosegretario al Lavoro e alle Politiche Sociali.
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Il suo ministero sarà il prossimo centro dello scontro...
«Sì, vogliamo cambiare la cultura sbagliata del reddito, riportando al centro il lavoro per gli occupabili e al tempo stesso l’assistenza per i non occupabili riportando qui al centro i comuni che poi saranno i frontman per individuare chi veramente avrà bisogno di un sussidio».
Eppure fu anche lei a farlo, proprio quando governava con Di Maio...
«C’era un contratto di governo, si doveva...».
Cosa non ha funzionato nel reddito?
«Direi tutto, dalla mancata qualificazione professionale dei percettori, con relativo fallito inserimento nel mondo del lavoro, alla scelta dei beneficiari, a pioggia, senza i dovuti controlli. Si doveva partire a tutti i costi, un po’ come con il bonus ristrutturazioni, e sono fioccate le truffe. Ma le sembra normale che in Italia oggi sia quasi più facile avere il reddito di cittadinanza piuttosto che il passaporto?».
I difensori del reddito sostengono che sia colpa delle Regioni se i percettori non hanno trovato lavoro...
«Balle. L’attività è stata assegnata ai navigator, persone senza professionalità né esperienza nel settore che potevano giusto aiutare se stessi. Le Regioni non c’entrano, sono i centri per l’impiego che in Italia non hanno mai funzionato, e ancora meno oggi, dove sembrano un reperto storico».
Un sostegno ai più poveri però c’è in tutta Europa...
«Per averlo efficace ed equo dobbiamo prima eliminare il reddito di cittadinanza. Il sostegno ci sarà, ma non areniamoci ai provvedimenti ideologici».
Non è un po’ ideologica anche la battaglia al reddito, eliminato molto di fretta?
«Non siamo andati veloce. Se fosse per il presidente del Consiglio, ho l’impressione che le misure sarebbero anche più drastiche. Sono d’accordo con lei però se mi dice che la riforma del reddito risponde a un’esigenza culturale di questo governo».
In che senso?
«Bisogna smontare la narrazione che in Italia si può essere sani e in età da lavoro ma non lavorare perché comunque arriva un assegno a casa.
Le nostre imprese chiedono manodopera, non possiamo lasciarla sul materasso, foderato di soldi pubblici».
L’opposizione sostiene che fate la guerra ai poveri...
«Dalla povertà si esce attraverso il lavoro, il sussidio è garanzia di povertà eterna».
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Anche sul lavoro si è aperto un fronte importante: i sindacati si battono per il salario minimo, la Schlein ne ha già fatto una bandiera, lei che viene dal mondo del sindacato e del lavoro in azienda, cosa ne pensa?
«Penso che non bisogna essere ideologici, altrimenti si rischiano effetti opposti a quelli desiderati. Il salario minimo in linea di principio va bene, ma siccome i contratti collettivi prevedono paghe più alte, introdurlo può significare abbassare i livelli minimi già raggiunti dalle categorie. Noi vogliamo che i salari aumentino, non che vengano piallati al livello più basso, come accaduto in altre nazioni che hanno adottato questa misura».
Andremo incontro all’ennesima riforma delle pensioni?
«Andiamo incontro a una riorganizzazione definitiva del comparto. L’obiettivo è garantire ai giovani la pensione e consentire a chi ha 41 anni di contributi di ritirarsi con un assegno dignitoso».
Quindi altro che quota 102, si potrà andare in pensione a sessant’anni?
«Lei pensa che sia facile avere 41 annidi contributi versati, dai 19 ai 60, senza interruzioni? Allora non conosce il mondo del lavoro».
E per l’entità degli assegni: se non si alzano gli stipendi, le pensioni restano basse?
«I 41 annidi contributi sono appunto funzionali a garantire un assegno soddisfacente. E poi va rinforzato il secondo pilastro, quello della previdenza integrativa, con sgravi e premialità».
Il lavoro sarà il tema di maggior scontro con la sinistra?
«Me lo auguro, significa che finalmente la sinistra avrà deciso di fare opposizione su cose serie e che interessano gli italiani».
Perché adesso non è così?
«L’opposizione forte fa bene al governo. Noi vogliamo confrontarci su temi veri, invece qui siamo fermi alle accuse di collateralità con il fascismo odi disumanità verso gli immigrati».
Lei ne sa qualcosa...
«Tutto mi si può dire, tranne che sono fascista. Ma quando mai? Quella vicenda del parto da intitolare al fratello di Mussolini venne strumentalizzata. I miei nonni arrivarono nell’Agro Pontino con il carretto, dalla provincia di Treviso. So cos’è il lavoro, so cos’è la democrazia. Ai tempi mi sono ritirato perché mi è stato chiesto, ma sono sempre stato sereno, infatti sono tornato».
Come si è avvicinato alla Lega, da Latina?
«Ho conosciuto Salvini nel 2016, me lo ha presentato Giorgetti...».
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«Io non gli ho mai chiesto nulla. Però quando era al 3% ho lasciato tutto per seguirlo e in tanti mi davano del matto».
Tra un anno si vota in Europa: anche stavolta il voto di Bruxelles rischia di terremotare il governo?
«Non penso, il progetto della Meloni mi pare chiaro, staccare il Partito Popolare dalla sinistra e legarlo ai conservatori».
E la Lega, non può restare fuori?
«Lo decideremo tutti insieme con il segretario. Mi lasci però rivendicare il merito di Salvini di essere stato tra i primi e i più lucidi nell’indicare e combattere i difetti, le inadeguatezze e i conflitti di interesse dell’Unione, che non ha poi una politica così trasparente ed equa rispetto ai suoi Stati membri. Se qualcosa sta cambiando a Bruxelles è anche grazie a noi».
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