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Khalid Chaouki e i migranti: "Perché il Pd disonora i morti in mare"

di Francesco Specchia lunedì 6 marzo 2023

4' di lettura

A parte il lutto che copre di lacrime le cose e il dramma d’un dolore straziante e condiviso, il naufragio di Cutro insegna che ogni forza politica non deve entrare nella secca delle cattive intenzioni; e che urge fermare le stragi, a partire dai punti d’imbarco. Il resto sono dettagli. Così la pensa Khalid Chaouki, il cui buonsenso è onestamente spiazzante. Anche perché Chaouki, marocchino, classe ’83, giornalista, è sì a capo della KC Consulting, società con la quale realizza relazioni internazionali come consulente strategico («un ponte fra due culture»). Ma è soprattutto un ex parlamentare ed enfant prodige del Pd multietnico...

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Caro Chaouki, la strage del caicco ha portato ad una tempesta giudiziaria per accertare, giustamente, le responsabilità. Ma ha pure scatenato una tempesta parlamentare, tra attacchi e richieste di dimissioni dell’opposizione. Come se ne esce? 
«Non bisogna cedere alla deriva ideologica, la questione è individuare i nostri veri interlocutori e capire che non possiamo sceglierceli: sono quelli con cui si possono davvero fermare le tragedie del mare. In Africa, nei posti che ben conosco, bisogna trovare accordi di controllo dei flussi migratori con la Tunisia, o con la Libia in cambio- parliamoci chiaro - di denaro come compensazione, o di una produzione di servizi e infrastrutture sul posto, come fa la Cina».
Non era un po’ l’idea – e la strategia - dei ministri degli Interni Minniti o Salvini, che per un po’ bloccarono i flussi? Flussi che ora sono aumentati di 9000 unità in pochi mesi. 
«Magari è brutto a dirsi, ma servirebbe turarsi il naso e cercare il dialogo anche con i “cattivi”. D’altra parte, il problema delle rotte migratorie dura da dieci anni e aumenta con tutti i governi. E, in effetti, solo Minniti e Salvini, attraverso quegli stessi accordi, sono riusciti per un po’ a limitare i danni. Questo dobbiamo fare, per ottenere il danno minore». 
Detta così qualcuno, specie dei suoi ex colleghi, potrebbe storcere il naso... 
«Ma non dobbiamo farne una questione moralistica, perché nessuno di noi qui può fare la morale. Quello che le ho appena illustrato è il solo modo per fermare un business maledetto: il traffico di esseri umani, che non riguarda soltanto gli scafisti e le organizzazioni criminali, ma anche le coperture politiche, dei governi».

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Secondo lei chi fa più fede tra gli Stati europei i quali, con lacrime di coccodrillo, disattendono gli accordi sulla distribuzione delle quote migranti; e gli Stati africani, che denunciano la tendenza dei loro giovani migliori emigrare in cerca di migliore destino, rischiando la vita? 
«Guardi, ci sono moltissimi paesi del nord Africa che l’immigrazione la subiscono, come Marocco e Libia. Che, appunto, vedono scappare i giovani su cui pensavano di puntare per il futuro. E purtroppo c’è il problema delle pregiudiziali. Io stesso sono appena tornato da un viaggio di lavoro da una Libia in cui, appena la situazione politica si tranquillizza, fette intere di comunità africane come quelle subsahariane, si integrano perfettamente come avveniva ai tempi di Gheddafi. Significa che ci sono molti giovani leader sindaci, amministratori locali, ex rivoluzionari che si sono stancati delle lotte intestine- che oggi, lì, possono offrire una soluzione alternativa al lager o alla fuga via mare rischiando la vita».
Ma, dato il bilancio d’insuccessi di questi anni, non sarebbe meglio cambiare il Trattato di Dublino che ordina l’accoglienza ai porti di primo approdo (magari aspettando le elezioni Europee spostando l’asse del potere del Parlamento a centrodestra)?
«Bah. Le elezioni sono ancora lontane. Cambiare oggi il trattato di Dublino mi pare un’illusione che si perpetua nel tempo. Non c’è riuscito nessun governo di nessun colore. D’altronde la Francia socialista con Hollande e Macron è stata sempre una feroce respingitrice dei migranti. Perché, a un certo punto, ti entra in ballo una questione di sicurezza nazionale, di coesione sociale, di interesse pubblico. La verità è che questi accordi dei quali le parlavo dobbiamo farli noi senza aspettare l’Unione Europea: o li facciamo noi direttamente oppure nessuno lo farà per conto nostro. Non illudiamoci».
Ma Giorgia Meloni avrebbe la forza per fare da sé?
«Meloni deve partire col fare da sé. Deve curare il dialogo con i Paesi africani di transito e di partenza. Anche perché l’Europa è molto ambigua: si interessa al dramma dei migranti se sono già nel Mediterraneo, quando invece si possono creare le condizioni per tenerli lì, come si diceva. E solo da lì è possibile individuare quelli che hanno veramente diritto d’asilo e quelli che possono venire da noi davvero a lavorare, per assecondare, come diceva il ministro Lollobrigida, quella domanda di 500mila unità da inserire nel nostro sistema produttivo».

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Cioè, noi dovremmo fare come l’Europa fa con Erdogan: lo paghi 3 miliardi, lui blocca le frontiere verso la Germania (ma ora le apre verso Cipro), e passa la paura?
«Erdogan è discutibile. Ma, secondo me, la logica dei rapporti bilaterali non è sbagliata, tutti gli Stati agiscono sulla base, in fondo dei propri interessi, specie nell’Unione Europea. Qua si deve capire che il vero fronte da aprire è quello con la sponda sud; in questo il “Piano Mattei” della Meloni è perfettamente congruo».
Il nuovo Pd è stato ferocissimo con il ministro Piantedosi. Elly Schlein ne ha chiesto le dimissioni prima ancora dell’esito dell’inchiesta su Cutro. Il resto dell’opposizione ancora prima. Ma la visita e le parole di Mattarella in Calabria, non hanno insegnato che, in certi momenti, la battaglia politica dovrebbe trovare requie?
«La sinistra sul naufragio di Cutro ha sbagliato. La tragedia tocca tutti, e il silenzio sarebbe stato il modo migliore per onorare tutti quei morti. Invece hanno agito come in passato avevano agito quelli di destra che da sinistra venivano criticati. Ci si dovrebbe mettere una mano sulla coscienza e pensare nell’interesse nazionale, evitando il più possibile le derive ideologiche».

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