Vittorio Feltri
Ho il sospetto che Basaglia, lo psichiatra di genio che fece chiudere i manicomi, avesse capito come sarebbe finita. Noi poveri matti credevamo di poter felicemente scorrazzare in libertà, esibendo i nostri trascurabili balbettii fuoriusciti dal cervello (esito a chiamarli pensieri), senza essere inseguiti e placcati da nerboruti infermieri, indi ingolfati nelle camicie di forza per essere segregati oltre quel muro. Adesso è tutto un muro, o più precisamente una corazza di bavosa melassa che siamo costretti a indossare appena fuori dal letto. Ci riveste dalla testa ai piedi, senza alcun orifizio liberatorio. Essa è dotata all’altezza della bocca di una tagliola, che scatta e amputa il muscolo del cavo orale se la punta della lingua prova a bucare la maschera di ferro con parole tabù.
In realtà, salvo qualche ardito votato al martirio, ci siamo adeguati al “politicamente corretto”, l’ideologia totalitaria che prima afferra e strizza la lingua e poi succhia il cervello e l’anima trasformando l’umanità in un vasto territorio di teste impagliate e lingue di legno. Ho usato fin qui immagini surreali, per essere all’altezza del “libello” (così definito dall’autore) o “pamphlet” (come lo chiama Giordano Bruno Guerri) scritto da Massimiliano Lenzi, giornalista e poeta, oltre che parecchie altre cose, il quale prima fotografa e poi tira poderose mazzate all’unica morale oggi ammessa, che prende vari nomi. Il modo più politicamente corretto di chiamarla - siamo ligi agli ordini, non vogliamo grane è esattamente “il politicamente corretto”, che può essere scritto all’inglese “politically correct”, oppure “mainstream”, che ha come conseguenza la “cancel culture”.
Tranquilli, nelle 54 pagine del volumetto, trovate tutto e di più. Il titolo è quasi più lungo del libro: Non me ne frego - La crisi delle democrazie occidentali (e Giorgia Meloni non c’entra), costa dieci euro, e i tipi sono quelli di Male Edizioni, come un’osteria che prometta vino cattivo e ti sfidi a berlo per stupirti. Ecco, mi ha stupito. Ha reso possibile l’impossibile. Un saggio breve e di pronta beva, insieme popolare e colto. Provo a spiegare il titolo, in particolare lo strano “Non me ne frego”, ma sbaglierò senz’altro. Il “me ne frego” fu uno dei motti prediletti da Mussolini, e perciò guai a usarlo, anatema, censura in quanto rivendicazione identitaria da camicia nera. (Adesso si preferisce il più elegante “‘sti cazzi”). Lenzi usandolo con la negazione davanti riesce a sfottere il politicamente corretto, usando proprio il frasario messo all’indice. E lo fa per avvertirci che non bisogna “fregarsene”, anzi si deve contrastare questa “dittatura” il cui marchio di fabbrica è l’imposizione della neo-lingua progressista. Cancellare vocaboli, negare espressioni popolari come incivili, significa mettere il lucchetto alla mente da cui sgorgano parole e significati. Jacques Derrida, che più progressista di lui non ce n’è, sosteneva che non esistono sinonimi. Ogni lemma è un numero primo. La libertà è scegliere quello che mi corrisponde. Vietato.
La parlata che ci viene imposta, pena denunce e segregazioni nel lazzaretto dei reietti, è - come sostiene Luca Ricolfi - un’accozzaglia di “astrusità dei ceti alti”, che sentendosi “moralmente superiori” impongono la loro etica di Stato attraverso la pulizia etnica e razziale del linguaggio. Ah sì, le nostre democrazie sono formalmente adornate da articoli che garantiscono libertà di opinione e di parola, il colmo è che l’articolo 21 della nostra Costituzione è impugnato come una chiave inglese per minacciare di morte civile chi rifiuta di stanziarsi sul binario morto dei comandamenti progressisti, salutisti, fluidi, green, gretini, che anticipano il gelo della cassa di zinco. Splendido e terrificante il ritratto che Giordano Bruno Guerri, nella “post-chiacchierata” che chiude il pamphlet, fa di Singapore: città-Stato perfetta, democratica, pulita, severa con chi fuma, istruita, politicamente correttissima. L’inferno dev’essere così.