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Franceschini, le Br e quei comunisti che volevano distruggere lo Stato

Uno dei fondatori del gruppo terroristico è morto a 77 anni l’11 aprile. All’epoca del sequestro Moro era già in carcere, ma continuò ad appoggiare la lotta armata
di Francesco Damato domenica 27 aprile 2025

3' di lettura

Fra tutti e i maggiori esponenti delle Brigate Rosse, di cui era stato uno dei fondatori, Alberto Franceschini è riuscito ad essere il più emblematico e insieme anche il più misterioso. Persino nei tempi e nelle circostanze della morte. Avvenuta l’11 aprile, all’età di 77 anni, e appresa nel giorno più difficile, diciamo così, in cui conquistarsi un’attenzione adeguata al sinistro ruolo avuto dall’interessato nella storia del terrorismo italiano: il giorno dei funerali di Papa Francesco.

Libero dal 1992, e refrattario al palcoscenico nella sua recuperata libertà dopo avere scontato le condanne procuratesi da terrorista, Franceschini conosceva paradossalmente delle Brigate Rosse più segreti del fondatore più famoso, che è l’ultraottantenne Renato Curcio, e del protagonista dell’operazione più clamorosa - e alla fine suicida - compiuta da quell’organizzazione armata. Mi riferisco naturalmente a Mario Moretti, di un anno meno anziano di Franceschini, e al sequestro di Aldo Moro, la mattina del 16 marzo 1978 fra il sangue della sua scorta, in via Fani, a Roma, in quella che fu definita una mattanza da una terrorista che vi aveva partecipato.

IL COVO INDIVIDUATO

Il sequestro si conclude 55 giorni dopo con l’uccisione dell’ostaggio nel bagagliaio di un’auto parcheggiata nel palazzo dove era finito prigioniero. E dove le forze dell’ordine avevano peraltro individuato il covo, pronte all’assalto ad un comando che mai arrivò non si saprà mai se e per quale preciso motivo, di buona o cattiva fede che fosse.

Certo è che i terroristi sapevano di essere stati scoperti e accelerarono l’esecuzione della loro sentenza di morte per sfuggire contemporaneamente all’assalto e ad una crisi del loro vertice per la grazia che l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone si accingeva a concedere alla terrorista detenuta Paola Besuschio, Che era stata scelta dal Quirinale fra i tredici con i quali le Brigate Rosse avevano reclamato lo scambio con Moro.

Forse al corrente, il prigioniero ebbe l’illusione, confessata nella sua lettera d’addio alla moglie, di poter essere liberato. Leone, dal canto suo, ad esecuzione di Moro avvenuta, quel tentativo di grazia costò l’interruzione del suo mandato presidenziale per le dimissioni impostegli dai suoi colleghi di partito democristiani e dal Pci di Enrico Berlinguer. Dimissioni motivate ipocritamente con ragioni moralistiche, cavalcando voci e notizie di natura giudiziaria. Una vergogna autentica, di cui poi raccolsi personalmente una sola confessione: quella di Giovanni Galloni. In tempo, per fortuna, per rivelarla all’ormai ex presidente.

NODI MAI SICOLTI

Franceschini, di formazione e provenienza comunista, era già stato arrestato da quattro anni all’epoca del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. Era finito in carcere per il sequestro del giudice Mario Sossi e altro. Ma nel suo percorso di dissociazione premiato giudiziariamente egli avrebbe aiutato a intravedere, capire lo zampino, quanto meno, avuto dai servizi segreti forse già nella nascita, sicuramente nella crescita delle Brigate Rosse arrivate a sfiorare il successo finale, con la sconfitta dello Stato. Un obbiettivo paradossalmente fallito solo grazie a quello riuscito contro il presidente della Dc.

Sarebbero state le Brigate Rosse a finire sconfitte, per quanto si fossero illuse tenendo lo Stato sotto scacco per 55 giorni e uccidendo anche Moro, dopo averne sterminato la scorta. Franceschini dal carcere aveva capito come sarebbe finita davvero. E per fortuna. Il diavolo, si sa, fa le pentole senza coperchi, per quanto quello dello zampino dei servizi segreti sulla pentola delle Brigate Rosse qualche altro diavolo sia riuscito metterlo.

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