L’arte di vivere prima di diventare vecchi

Ripubblicato "Il vecchio scapolo" dell’austriaco Adalbert Stifter. Al centro della storia, il confronto tra un anziano zio e suo nipote
di Carmelo Claudio Pistillodomenica 27 aprile 2025
L’arte di vivere prima di diventare vecchi
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Thomas Mann lo definisce come «uno dei narratori più strani, profondi, celatamente arditi e travolgenti della letteratura universale». Nel Viandante e la sua ombra Nietzsche sostiene che uno dei tesori della prosa tedesca è il romanzo Tarda Estate, degno di essere letto e riletto e di stare accanto ai Colloqui con Goethe di Johann-Peter Eckermann e a Gente di Seldwyla di Gottfried Keller, ricordato da György Lukács come uno dei massimi scrittori epici del XIX secolo e autore di un capolavoro come Enrico il verde.

Tuttavia, i giudizi su Adalbert Stifter (1805-1868), questo lo scrittore austriaco di cui ci stiamo occupando e a cui Claudio Magris ha dedicato un ampio capitolo nella sua storia della cultura asburgica, non sono tutti alimentati dall’encomio. Dopo averlo amato in età giovanile, in Antichi maestri, Thomas Bernhard impiega pagine e pagine per smontarne il mito. $ un dilettante di provincia, è sciatto, pasticcione, un imbrattacarte da quattro soldi, l’autore più noioso e ipocrita della letteratura tedesca, un maestro del kitsch come il compositore Anton Bruckner, verso cui l’autore di Gelo non risparmia critiche altrettanto feroci. In questa controversa e gratuita stroncatura, Bernhard non risparmia sentenze nemmeno a Martin Heidegger, un imbecille delle Prealpi soggiogato dalla moglie, che ha annegato la filosofia nel kitsch. Se Stifter è una “tragica apparizione”, Heidegger è un filosofo per imitazione con un berretto nero e idee di seconda mano in testa, un piccolo borghese “comico” con i suoi pantaloni alla zuava infeltriti e indecorosi. La stravagante e ingiustificata critica di Bernhard nasce probabilmente dal fatto che in Stifter è centrale la “mite legge”, ovvero una concezione della vita identificabile con l’eterno presente del quotidiano simile al fluire millenario di un grande fiume. Dove anche l’insignificanza lascia la sua impronta. Tutt’altra cosa rispetto alla nichilistica visione bernhardiana, nella quale, a differenza di quella di Stifter, non esiste la natura.

DÀ VOCE ALLA NATURA

In Stifter, secondo Bernhard, manca la presa d’atto che la malattia mortale e il perturbamento costituiscono il lacerante insulto patito dall’essere umano, di cui la letteratura deve tenere conto. Temi o traumi ossessivamente inchiodati in ogni parola e frase della prodigiosa ma nevrotica opera di Bernhard. Non certamente in Stifter, i cui racconti non parlano apertamente delle inquietudini e delle angosce dell’uomo, lasciate dietro le quinte per dare voce alla natura e al ritmo lento e ripetitivo dei gesti quotidiani.

Di altro avviso, naturalmente, sono i maggiori studiosi della letteratura tedesca, che considerano Stifter uno degli scrittori più autorevoli dell’Ottocento. A darne conferma, ci ha pensato la casa editrice Carbonio che, nella collana Origine, già gremita di grandi autori come Strindberg, Turgenev, Flaubert, Broch, Jacobsen, Lenau, ha pubblicato recentemente Il vecchio scapolo (traduzione e introduzione di Margherita Carbonaro, €14,50, pp. 139), un romanzo breve di cui esistono almeno due stesure (1844 e 1850). L’impeccabile traduzione della Carbonaro si rifà alla prima versione del libro.

La storia mette a confronto la giovinezza e la vecchiaia. Da un lato il giovane Victor che, nonostante l’inesperienza, non crede al matrimonio, dall’altro lo scontroso e solitario zio, mai conosciuto, che si è ritirato a vivere in un eremo protetto da una boscaglia, in seguito alle delusioni avute durante la sua esistenza. L’arrivo del nipote, però, risveglia nel vecchio scapolo uno slancio idealistico. Lo zio confessa al nipote che solo per vicende familiari non gli è stato possibile stargli accanto e insegnargli a essere «un’aquila che tiene il mondo nei suoi artigli e, quando è necessario, lo lascia cadere tranquillamente nell’abisso». Quindi lo esorta a non fare i suoi errori e a non avere rimpianti, rinchiudendosi nella solitudine. Che si abbandoni all’amore e si sposi, gli suggerisce.

Nello splendido monologo finale, lo zio rimprovera al ragazzo di non conoscere la vita ma la vecchiaia. La lezione prosegue sostenendo che «la vita è una cosa scintillante, nel cui abisso ci si getta- e persino nell’abisso è bella - e la vecchiaia è una falena che svolazza lugubre attorno alle nostre orecchie, e già se n’è andata prima che abbiamo potuto riconoscerne i colori». A cosa serve vivere, si chiede retoricamente lo zio, se non hai generato una vita che perdurerà dopo la tua?

NON SOLO INCANTO LETTERARIO

La storia imbastita da Stifter, in un certo senso è un inno al matrimonio anche se il sentimento “viene e scompare”. Occorre evitare di rimanere sulla vetta delle proprie imprese senza aver generato qualcuno che riceverà quell’eredità, come è accaduto a lui, a cui nessuna donna gli ha dato un figlio. $ Victor, il suo erede. Ma toccherà solo al nipote la decisione. Come al solito, Stifter, al di là del messaggio sulla convenienza del matrimonio, da esperto di botanica e mineralogia, ci regala pagine in cui la descrizione della natura primeggia su tutto. Pochissimi scrittori sono capaci di restituire la magie dei boschi, dei cieli stellati e delle montagne. Da bravo ed effettivo pittore qual è, Stifter dimostra la sua maestria nel saper evocare paesaggi e nell’insegnarci a osservare e ad amare la natura e le cose della vita meno appariscenti.

Ma dietro questo incanto letterario, contrariamente alla requisitoria di Bernhard, in Stifter covano sotto traccia sentimenti autodistruttivi e paure. «Lui stesso si fa la barba, così che nessuno gli tagli la gola, e tutte le notti rinchiude i cani per non essere divorato da loro». Nelle prime due pagine de Il lupo della steppa, Hermann Hesse, ripropone la vicenda umana e la “mite legge” di Stifter. Infatti si pone la questione se durante giornate senza crucci e disperazione, non sia il caso di seguire l’esempio di Stifter e di «essere vittime di una disgrazia facendosi la barba». Nella notte tra il 25 e il 26 gennaio del 1868, sfinito dalla malattia, Stifter si reciderà volontariamente la gola con un rasoio. Morirà due giorni dopo.