Le macerie morali dei tempi di guerra e le macerie materiali del 2009, le offese dell’uomo e quella della Natura. Ambedue spietate. A Onna, nell’Abruzzo aquilano, il 25 aprile di sedici anni fa, si svolgeva una commemorazione nella commemorazione: delle vittime innocenti della barbarie nazista e di quelle altrettanto innocenti della furia degli elementi. Silvio Berlusconi aveva scelto quel luogo-non luogo per celebrare la Festa della liberazione, in un appuntamento che non aveva nulla della festa e ambiva a tentare di liberare dalle angosce e dal dolore scatenati da quel maledetto terremoto dell’Aquila. Tra quelle montagne, nel 1943, erano passate tragedie e riscatto, oppressioni e speranza. Dal palco Berlusconi lanciò parole di conciliazione e di concordia nazionale, di condivisione, di superamento delle passioni politiche e degli asti passati e presenti. Alle sue spalle una bandiera italiana, con al centro un disegno agitato dallo scarso vento: il profilo della Maiella, la montagna madre degli abruzzesi, lì dove era nata la prima resistenza all’occupante tedesco, spontanea e organizzata.
C’erano diversi combattenti maiellini col tricolore al collo. Uno di essi alla sinistra di Berlusconi, Antonio Rullo, durante il discorso aveva fatto il possibile affinché le telecamere inquadrassero la medaglia d’oro che pendeva dall’asta di quella bandiera di libertà. Anche Rullo aveva al collo il fazzoletto tricolore col profilo della Maiella. Era stato il più giovane combattente di quella formazione autonoma e apartitica inquadrata nell’8ª Armata britannica, e nel 2009 era presidente dell’Associazione dei patrioti, dopo la scomparsa del vicecomandante Domenico Troilo avvenuta l’11 marzo 2007, al quale era sempre stato vicino. Custodiva lui quella medaglia d’oro al valor militare, che simboleggiava il sacrificio suo e dei suoi compagni, l’unica concessa a una formazione irregolare, la prima a essere costituita e riconosciuta, quella col più lungo ciclo operativo dell’intera guerra di liberazione, dall’Abruzzo montagnoso fino all’altopiano di Asiago. Rullo voleva che quel giorno non fosse una ricorrenza qualunque, ma potesse dare un segnale emblematico e forte.
Me ne aveva parlato e gli suggerii di fare qualcosa di molto semplice ma anche di molto significativo, come già accaduto nel 2001. Allora il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi aveva indossato il fazzoletto tricolore della Maiella e aveva abbracciato Domenico Troilo, medaglia d’argento al valor militare italiana e croce di valoroso polacca, e Attilio Brunetti, medaglia d’oro al valor militare italiana e Virtuti militari polacca. Ciampi era stato ospitato, protetto e aiutato a passare le linee lungo uno dei “sentieri della libertà” da quella stessa gente che aveva impugnato le armi per riconquistare la libertà perduta.
«Non ci vuole coraggio», così Troilo amava ripetere nelle scuole, «per opporti a chi viene in casa tua per opprimerti, per rubare, per farti violenza: ci vuole solo la dignità».
E furono tanti i patrioti della Maiella a mettere in gioco la vita per la dignità propria e altrui, combattendo per le proprie case e le proprie terre, e poi per gli altri italiani. E Troilo ricordava sempre: «Ho combattuto, ho ucciso in battaglia, ma non ho odiato. Non ho mai odiato nessuno».
Quella linea morale era la stessa dei patrioti ai suoi ordini, quelli che non volevano i colori dei partiti e neppure le stellette della monarchia screditata. Sul bavero i maiellini avevano un nastrino verde, bianco e rosso, simbolo persino registrato, e sul braccio uno scudetto col profilo imbiancato della Maiella.
Seguendo il consiglio Antonio Rullo aveva saputo aspettare il momento giusto, e quindi aveva consegnato a Berlusconi il fazzoletto tricolore con al centro lo stesso profilo, quello della bandiera di guerra che chiunque può vedere al Museo del Vittoriano a Roma. Il premier non ci aveva pensato su un secondo, aveva preso dalle mani dell’ex combattente quel rettangolo di stoffa che racchiudeva e raccontava simbolicamente una storia di ragazzi diventati subito uomini, e l’aveva messo al collo diventando per qualche minuto uno di loro, moltiplicando visivamente il messaggio sugli schermi tv e su tutti i giornali. Il discorso di Onna avrebbe potuto e dovuto aprire una nuova stagione nei rapporti tra i partiti e con la storia. Il discorso di Onna andrebbe riascoltato, per ritrovare e comprovare che quello che ci unisce è molto più di quello che ci divide, come qualcuno vorrebbe ancora che fosse perché fa il gioco al ribasso della politica d’accatto, degli slogan da social e dalle dichiarazioni da bar dello sport, del tifo da curva e in piazza.
Sono passati sedici anni. Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da Genova, ha scandito nel suo discorso che «una democrazia a bassa intensità non la possiamo accettare». Un’immagine superba, da qualsiasi angolazione si guardi alla democrazia, quella stessa che Berlusconi nel 2009 voleva «finalmente pacificata».