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Pietro Senaldi, ciao zio Carlo: un politico lo si resta per tutta la vita

di Pietro Senaldi domenica 20 aprile 2025

4' di lettura

Ecco la lettera, pubblicata sulla Prealpina, scritta da Pietro Senaldi in ricordo di suo zio Carlo, scomparso ieri, sabato 19 aprile

Vi ringrazio personalmente e a nome di tutto il numeroso e variegato clan Senaldi per avermi regalato questo spazio sulla Prealpina per ricordare Carlo, il più piccolo dei nove figli avuti dai miei nonni, Pietro Senaldi ed Ebe Coronetti. “Era un buono”, mi ha detto mio padre Guido ieri, suo compagno di camera da bambini e di studio per tanti anni, “se poteva aiutare qualcuno, lo faceva”. Per piacere personale, educazione famigliare e senza calcoli, aggiungo io. “Nel suo ufficio accoglieva tutti, senza distinzione di ruoli e portafogli” mi conferma il suo primo genito, Guido, che con i fratelli Claudio e Marina e la zia Anna  ne porta avanti il lavoro. Li accoglieva tutti allo stesso modo, che era l’unico suo, con simpatia, semplicità e la voglia di risolvere i problemi, anche quelli impossibili.

Mio zio era un politico, lo si resta per tutta la vita. Anche in ospedale, quando nel caos della malattia confondeva le persone, tracciava scenari. D’altronde la sfida all’impossibile ha caratterizzato gli ultimi trent’anni della sua esistenza. Era stato sottosegretario  per la Democrazia Cristiana nei governi Goria, De Mita, Andreotti VI e VII. Dopo che tutto era crollato, Silvio Berlusconi gli offrì un seggio nel 1994, come a tanti, quando doveva formare la sua classe dirigente. Il Carlo declinò l’invito. Nulla di personale, anzi: non invidiava il talento altrui, lo rispettava. Solo voleva morire democristiano, e ce l’ha fatta. Non usò mai lo Scudo Crociato per nascondercisi dietro e farsi gli affari propri. Il poco potere che ha avuto non l’ha arricchito e l’ha usato per gli altri; talvolta forse anche per chi non meritava, ma sono certo che non se ne sia mai pentito.  Lui lo Scudo Crociato lo portava fiero in battaglia e ha combattuto in maniera irrazionale, inarrendevole e pressoché solitaria per farlo avanzare, con tutti noi ad ascoltarlo affettuosamente attoniti. E sì che le leggende di famiglia raccontano che la Democrazia Cristiana lo tradì, nella notte pre-elettorale del 1992. Un pacchetto di voti sposati all’ultimo verso amici di partito più generosi, non nello spirito. Vicende prescritte, morte prima di lui come tutti i protagonisti.

Questa pugnalata non bastò a farlo disamorare. Sarà stato l’imprinting del nonno, tessera del Partito Popolare di Don Sturzo già nel 1919, tra i pochi, se non l’unico, avvocato della provincia di Varese mai iscritto al Partito Fascista, e per questo difensore d’ufficio della camicie nere davanti ai Tribunali del Popolo dopo la guerra. Una mattanza, dove vivere o morire era questione ordalica e non di effettive colpe, con i fascisti convertitisi alla democrazia che per nascondersi meglio urlavano “fascista” a lui. Lui invece non tradì. Non fu mai tentato di guardare a sinistra, tantomeno di invischiarvisi, come tanti democristiani più giovani, ma anche coetanei, hanno fatto cercando e in alcuni casi trovando fortuna. Ha sempre rispettato il rivale politico quanto i propri valori, il che significa mantenere le distanze. Ha passato lustri a cercare alleanze locali con le forze di destra, inseguendo Dio sa cosa, ma soprattutto credo divertendosi. Aveva il gusto della gente e per questo faceva politica e forse l’eccesso di carica umana ha nascosto agli occhi meno attenti le sue qualità: fare bene e veloce, quello che si richiede a un professionista.

Ancora oggi, quando capito a Roma nelle osterie intorno a Montecitorio, i più vecchi si ricordano di mio zio. L’anno scorso il figlio di un famoso ristoratore mi ha parlato di lui e abbiamo telefonato. Posso solo immaginarmi il casino che faceva e l’allegria che portava quando entrava in un locale. Talvolta per via dello stesso cognome le persone che lo hanno conosciuto mi fermano. Non ho mai sentito una cattiveria sul suo conto. Proprio perché il più piccolo dei fratelli, lo si è anche a ottant’anni suonati, forse su di lui l’austerità del nonno si era un po’ allentata e questo ne ha fatto un libero e gioioso portatore di antichi valori e principi di cui non sentiva il peso. Mi ha sempre dato l’impressione di non aver paura di nulla. Mi ricordo un viaggio a Roma, io praticante giornalista e lui ormai ex parlamentare. Aveva prenotato tutto uno scompartimento business solo per noi due, per stare rilassati e poter parlare; ma di che? Non ricordo una parola, solo l’insegnamento di quel lusso inutile: goditi la vita e impara a premiarti. Mi mancherà andare in studio a Gallarate e non trovarlo nel suo immenso ufficio, che era diventato un quartier generale. Di lì si passava per sapere di tutti. E, con mio padre, il Carlo è sempre riuscito a tenere insieme tutti. Certo in famiglia è più facile che in politica, perché nella vita privata la coerenza paga e in quella pubblica ti può lasciare solo. Ma l’importante è non spaventarsi e non demordere e fare solo i compromessi che ti permettono di continuare a guardarti allo specchio. Questo è l’esempio che passa di generazione in generazione.

Aveva poco tempo da perdere e così è stato anche con la malattia. Da Natale a Pasqua. E’ morto all’alba del sabato Santo, così ci impiegherà meno di Gesù a risorgere.

Ciao zio e grazie, hai fatto tanto.

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