Antonio Scurati fuori controllo sul Duce: l'ultimo pessimo libro

Abbiamo letto "M. La fine e il principio": una sceneggiatura contro il Fascismo con tante lacune e citazioni senza fonti né biografia
giovedì 10 aprile 2025
Antonio Scurati fuori controllo sul Duce: l'ultimo pessimo libro
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C’è scritto “romanzo” sulla copertina e già questo basterebbe a chiudere ogni discorso o discussione su quello che c’è (e quello che non c’è) nel quarto e ultimo capitolo della saga scuratiana “M. La fine e il principio”. Ma poiché arriva con tempismo teutonico sull’anniversario tondo della Liberazione (80°) e in sintonia con la discussione aperta su guerra e riarmo, l’autore ci tiene a mettere le mani avanti e ribadire in apertura: «Alla fine come in principio» è un «romanzo documentario» (qualunque significato voglia attribuirgli) e che «fatti e personaggi non sono frutto della fantasia». Ma poi Scurati proprio non ce la fa a contenersi e lancia il suo messaggio epocale a «italiani, europei, americani» e un appello all’umanità intera con la dedica «A tutti quelli che ancora credono nella democrazia» e ammonendoli: «Si preparino a lottare».

E prima ancora ad acquistare il suo libro sul periodo 1943-1945. Anzi, per stare al suo stile, millenovecentoquarantatré, millenovecentoquarantaquattro e millenovecentoquarantacinque, come corre e ricorre in tutto il testo. Con scontate anticipazioni e squilli di tromba, il libro è uscito; per il moschetto dell’antifascista perfetto occorrerà attendere la mobilitazione delle brigate partigiane filoscuratiane, pronte ad agitare il tomo in aria il 25 aprile con consueti fuochi d’artificio di slogan e retorica resistenziale.

Non è il libretto rosso di Mao ma è il romanzo nero superfetato su pezzetti di citazioni aforistiche (senza fonti e senza bibliografia) su cui l’autore costruisce una specie di sceneggiatura che privilegia alcune tematiche, ne omette altre, ne sfiora altre ancora a suo insindacabile giudizio (non è un saggio) e ne dimentica di non secondarie. 

NUOVO ISTITUTO LUCE 
È lo scrittore che guida il lettore di pagina in pagina, come si se trovasse nei luoghi indicati e addirittura nella mente dei protagonisti, di cui racconta persino sogni e interpreta stati d’animo. Con le non-citazioni a volte si smarrisce: attribuisce a un colloquio riferibile ad Adolf Hitler un pensiero contenuto nei Diari di Joseph Goebbels (il quale si chiedeva cosa fosse questo fascismo liquefatto in 24 ore), e a Mussolini una frase («Fate di me quel che volete») che non pronunciò davanti al Führer a Rastenburg il 14 settembre 1943 ma agli operatori dell’Ufa che volevano scattargli fotografie appena liberato il 12 settembre e gli chiesero di mettersi in posa davanti all’ingresso dell’albergo sul Gran Sasso, con gli ufficiali dei paracadutisti dell’Operazione Quercia e gioiosi carabinieri e poliziotti che non avrebbero dovuto consegnarlo ai tedeschi.

La cifra narrativa, essendo appunto narrativa, non può prescindere dall’impronta che dà Scurati, il quale arzigogola, si pone e propone domande a vagonate e le snocciola spizzicando e sbocconcellando dai riquadri di riferimento. Con parafrasi semifedele, a esempio, di un passo di Clara Petacci in riferimento al discorso da Radio Monaco, imbastendo questo inciso: «Si può davvero riconoscere in questa dizione bassa, stanca, tediosa, l’eloquio infuocato del Duce del fascismo? No, non è possibile. Deve trattarsi di un impostore». È un testo da cinegiornale dell’Istituto Luce senza Istituto Luce e senza l’inconfondibile timbro di Guido Notari. Al periodo della detenzione e della caccia a Mussolini è dedicata appena la pennellata patetica di un bambinesco ex Duce che fa i capricci a Ponza, si avvertono gli sbalzi storici e i cambi di registro, ma anche il compiacimento per il bello stile ricercato a oltranza che sconfina nel vuoto marinismo a effetto. E così Piazza San Sepolcro, quella della nascita del fascismo, diventa «nocciolo radioattivo dell’atomica novecentesca» e i fascisti rinati nella Repubblica sociale escono da ombre «più dense, verminose, maleodoranti di piscio stantio», quelle dei criminali e torturatori delle milizie private.

A Villa Feltrinelli il Duce «non ha al fianco nemmeno la dolce Clara a cullarlo per fare la ninna», rimodulando un passo della grafomania seriale della Petacci. E le figurine si susseguono, ben marcate dalla prospettiva autoriale, dichiaratamente manichea. Niente sulla Rsi se non la subordinazione totale al Reich (neanche un accenno alla minaccia di “polonizzazione” dell’Italia), grana grossa sui militari italiani deportati e internati nei lager, nessuna analisi ma solo racconto in capitoli-puntate, molto moralismo, poco approfondimento, come su Edda schizzata per grandi linee e il Processo di Verona, e persino con l’omissione dell’Operazione Sunrise che portò al tradimento dei tedeschi e alla resa.

AMNESIA ALLEATI
Gli Alleati, impegnati in Italia con due armate, non ci sono, e non ci sono neppure i soldati italiani che combattono con gli Alleati. Ma in compenso ci sono partigiani che alla vigilia dell’insurrezione generale a detta di Scurati controllerebbero buona parte dell’Italia, e in città i micidiali Gap che non sparano contro gli uomini ma contro le uniformi (con dentro gli uomini). I fascisti e i nazisti facevano di peggio, perché sparavano anche contro quelli che la divisa non la portavano, compresi donne e bambini.

Fu una guerra civile, spietata, dolorosa, crudele, quella che incancrenì durante i seicento giorni di Salò. E pure sdoganata storiograficamente dopo decenni diveto ideologico, che oggi, dopo ottanta anni, non avrebbe bisogno né di bollinatura né di visto. “M. La fine e il principio» è uno zibaldone non in senso leopardiano ma proprio di vivanda con molti e svariati elementi, quindi che possa piacere è fuor di dubbio, perché qualcosa che piace ci si ritrova comunque e il prodotto è alla moda.

Il libro è dilatato nella dimensione editoriale pure con una specie di appendice dedicata a profili biografici che occupano ben un terzo del volume (da p. 289 a p. 405), dove viene inserita anche la senatrice Liliana Segre ex deportata ad Auschwitz dal famigerato Binario 21 di Milano, accanto a gerarchi fascisti giustiziati e scampati alla resa dei conti, a Vittorio Emanuele III, ai Marescialli Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani, all’autista e al cameriere di Mussolini, Ettore Boratto e Quinto Navarra, agli scrittori Curzio Malaparte e Mario Rigoni Stern, al futurista Filippo Tommaso Marinetti e personaggi minori. Dopo piazzale Loreto dove gli esagitati fanno scempio dei corpi sui quali granguignolescamente «vendemmiano a colpi di tacco», Scurati piazza un pistolotto conclusivo di fantasia col cadavere di Mussolini che conciona, sullo stile del monologo tanto di moda, soprattutto se non viene letto in pubblico e si può urlare alla censura. Come fine del principio, insomma.