Arianna Meloni: "Fare il genitore è il mestiere più difficile di tutti"

"Patriarcato? Sicuramente esiste in contesti non occidentali. La lotta alla violenza di genere priorità del governo"
di Annalisa Terranovamartedì 8 aprile 2025
Arianna Meloni: "Fare il genitore è il mestiere più difficile di tutti"
5' di lettura

Sara, ventidue anni, uccisa a coltellate per strada da un uomo che la perseguitava ma lei non voleva saperne. Ilaria, uccisa dal suo ex, il corpo chiuso in una valigia poi gettata in un dirupo. Una strage che non si ferma. La violenza di genere – afferma Arianna Meloni – rappresenta «un’emergenza e contrastarla deve essere una priorità».

Ricorda anche le misure introdotte dal governo in questi due anni e mezzo, come l’incremento dei fondi per i centri anti-violenza e il reddito di libertà. Provvedimenti richiamati nella prefazione a un libro appena uscito, L’altro femminismo (Eclettica), dove si intende combattere il pregiudizio secondo cui a destra non interesserebbe la questione femminile.

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Il ddl sul femminicidio in qualche modo corona il ddl contro la violenza sulle donne che rafforzava strumenti come l’ammonimento, la distanza minima di avvicinamento e il braccialetto elettronico. 
«È significativo che nel nostro codice penale venga introdotto il delitto di femminicidio come reato autonomo, che viene sanzionato, appunto, con l’ergastolo. Ma non solo. Si prevedono anche aggravanti e aumenti di pena per i reati di maltrattamenti personali, stalking, violenza sessuale e revenge porn. Insomma, sulla violenza contro le donne vogliamo invertire definitivamente la rotta e vogliamo farlo quanto prima».
Lidia Ravera, la femminista che in gioventù fu autrice del libro-scandalo Porci con le ali, ha dichiarato che la violenza contro le donne è un problema dei maschi. Che ne devono parlare tra loro, facendo una sorta di autoanalisi. Sei d’accordo? 
«No, non sono d’accordo e cerco di spiegare perché. Secondo i dati del Servizio Analisi Criminale, nel 2024, sono state 113 le donne uccise. Novantanove delle quali in ambito familiare o affettivo. Di queste 61 hanno trovato la morte per mano del partner e dell’ex partner. È un dato sconcertante sul quale abbiamo l’obbligo morale e civile di riflettere tutti, uomini e donne, per poter intervenire in modo concreto. I numeri ci dicono chiaramente che c’è un problema anche di tipo culturale. Dunque, credo che dobbiamo lavorarci ad ogni livello, non solo politico. Anzi, sono fondamentali soprattutto la famiglia e la scuola».
L’introduzione nelle scuole dell’educazione all’affettività può essere un percorso utile a frenare la violenza contro le donne? 
«L’educazione – e questo vale in generale – spetta soprattutto alla famiglia. Dunque, credo che l’educazione all’affettività, alle emozioni e ai sentimenti sia un tema di cui devono occuparsi in primo luogo le famiglie. Poi, è chiaro, anche il ruolo della scuola è fondamentale. Non a caso, accanto a tutte le misure per intervenire su questo fenomeno che abbiamo già ricordato, il governo ha predisposto anche iniziative di sensibilizzazione e prevenzione della violenza indirizzate proprio alle scuole, che prevedono il coinvolgimento attivo dei ragazzi e la stimolazione della loro creatività».
Si parla molto di una serie Netflix, “Adolescence”, il cui protagonista è un tredicenne che accoltella una coetanea. Personalità fragile ma violenta, priva di punti di riferimento. La serie mostra anche la reazione disperata, incredula, dei genitori del ragazzino divenuto assassino. Che sta succedendo ai nostri giovani? Perché questa esplosione di rabbia incontrollata che porta a sopprimere la vita altrui? 
«Ho visto la serie e la considero un capolavoro che aiuta una profonda riflessione, soprattutto per noi genitori. Personalmente penso che questi episodi non sono quasi mai improvvisi. Spesso sono il risultato di un disagio rimasto invisibile e silente. I nostri ragazzi vivono immersi in un mondo complesso, che corre veloce, che è iperconnesso. Ma spesso è anche povero di relazioni autentiche, reali, basate sul contatto umano e fisico. Quindi spesso si trovano a crescere in uno stato di solitudine emotiva, anche all’interno delle stesse famiglie. Viviamo in una società che offre pochi punti di riferimento, che spinge alla competizione, che critica chi sbaglia e deride chi fallisce e che non educa all’empatia. Spesso i genitori arrivano tardi: non per cattiveria o negligenza, ma perché non sono preparati a riconoscere certi segnali».
Gli adulti troppo spesso non si accorgono del disagio dei figli. Negano i problemi, non vogliono vedere. Significa che dobbiamo rassegnarci all’incomunicabilità? 
«No, assolutamente. Rassegnarsi non è un’opzione da contemplare. Anzi, dobbiamo intervenire prima che succeda l’irreparabile. Fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo e lo dico da madre di due ragazze. Credo anche che noi adulti dobbiamo avere il coraggio di metterci in discussione, di chiederci se stiamo davvero prestando la giusta attenzione ai nostri figli e se li stiamo educando nel modo giusto. Come genitori, dobbiamo anche insegnare ai nostri figli che si può fallire, che si può non essere perfetti, che bisogna accettare un rifiuto e andare avanti, che un “no” non è la fine del mondo, è normale».
Pensi che il ricorso al termine patriarcato sia realistico oppure è una parola-rifugio che serve ad alimentare un’ideologia anziché mettere a fuoco realmente i problemi che abbiamo di fronte? 
«È un tema complesso. Innanzitutto, credo che la parola “patriarcato” venga, spesso, utilizzata a sproposito. Addirittura, mi è capitato di sentir dire che il governo di Giorgia Meloni è un governo patriarcale... Sicuramente il patriarcato esiste in alcuni contesti religiosi e culturali che pure in Occidente ci sono. Faccio un esempio: Saman Abbas viveva in Italia, voleva studiare, voleva essere libera e indipendente. È stata uccisa dalla sua famiglia perché voleva vivere all’occidentale. Luca Ricolfi credo metta davvero a fuoco il problema quando parla di “maschilismo” e non di patriarcato. Viviamo in una società caratterizzata dall’assenza di autorità, dall’assoluta prevalenza dei diritti rispetto ai doveri, dall’incapacità di gestire situazioni difficili. In questo contesto le donne continuano – purtroppo ancora con fatica – a compiere passi in avanti per rompere il soffitto di cristallo sopra le loro teste. Gli uomini, volenti o nolenti, sono costretti a confrontarsi con le loro conquiste e i loro successi, ma a volte non sono in grado di farlo a causa di un’insicurezza latente e spesso a causa di un’incapacità di affrontare i problemi o accettare delle risposte negative».
L’impegno politico può essere una strada per evitare derive violente o autodistruttive di un ragazzo e di una ragazza. Cosa pensi quando vedi cortei di studenti che si accaniscono contro l’immagine di Giorgia Meloni? Pensi che possano tornare le contrapposizioni feroci degli anni Settanta?
«Quando i giovani si impegnano in politica tendenzialmente lo fanno sempre in maniera del tutto disinteressata. Lo fanno perché vogliono portare il loro contributo alla società, sentono l’esigenza di dover migliorare o correggere le molteplici storture che vivono nella loro quotidianità. In questo senso l’impegno politico giovanile, quando è animato da una sana voglia di cambiamento, è utile alla crescita e all’arricchimento personale. Sugli episodi di violenza politica invece penso che non vadano minimizzati. Anzi, penso che serva una condanna unanime da parte di tutte le forze politiche quando accadono certe cose. Una condanna unanime che, a volte, è mancata. Non voglio soffermarmisolo sui cortei in cui è stata bruciata l’immagine di Giorgia Meloni, anche se è molto preoccupante che ciò accada. Vorrei fare un discorso più generale e più ampio. Credo che, ad esempio, l’università è – o quantomeno dovrebbe essere – il luogo del confronto, del dialogo e della libertà. Invece, a volte, si è trasformato nel luogo della violenza e dell’intolleranza. A nessuno dovrebbe essere tolta la parola, a prescindere dalle sue convinzioni e dai suoi orientamenti».