Gianfranco Funari, il rivoluzionario della tivù che visse quattro esistenze

Una biografia racconta il grande innovatore dello schermo che da ragazzo fu venditore di acqua, poi croupier, cabarettista. E così capì e amò "la gggente"
di Francesco Mattanavenerdì 4 aprile 2025
Gianfranco Funari, il rivoluzionario della tivù che visse quattro esistenze
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Da uno come Gianfranco Funari, la cui dirompenza rimarrà impressa per generazioni, ci si aspettava forse uno scatto di reni in più pure negli epitaffi. Le due scritte sulla lapide, «ho smesso di fumare» e «manco da qui taccio», risultano con rispetto parlando un poco deludenti: la prima ha un po’ il sapore di una resa, mentre per un combattente inespugnabile come lui la resa non c’era; la seconda non è deflagrante come lo era abitualmente lui. La scelta, viceversa, di farsi seppellire come i faraoni egizi con oggetti riepilogativi della sua vita terrena – un telecomando, le fiches da gioco riferite ai trascorsi giovanili da croupier e in generale al suo gusto per gli azzardi, più un pacchetto di sigarette – quella sì rispecchia, in toto, la sua convinzione che nella vita, come nella morte, l’importante è esagerare.

Funari era uomo di carattere e chi ha un carattere, notoriamente, ha sempre un brutto carattere. Divisivo lo è stato quant’altri mai, e lo ricordiamo proprio per questa peculiarità di accendere la vampa attorno al suo modo di ragionare e di agire. In coincidenza col novantatreesimo genetliaco, arriva un libro, scritto da Marco Falorni e Andrea Frassoni (già curatori del docufilm Funari Funari Funari) dal titolo L’algoritmo Punari. “Un dito nel culo al futuro” (NFC Edizioni).

C’è la prefazione di Carlo Freccero, che ricorda i tempi corsari nei quali, gomito a gomito, godevano da matti nello scombussolare i palinsesti di Italia Uno, proponendo all’ora di pranzo la rivoluzione di costume di raccontare la politica col linguaggio della «gggente». Era il 1992 e l’attualità, con lo sconvolgimento di Tangentopoli e la rabbia montante contro i politici, veniva incontro a colui il quale era «tribuno del popolo» in maniera del tutto spontanea, lontano anni luce dagli ammanicamenti.

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TORTI IN FACCIA
Funari da giovinetto fu rappresentante di acque minerali imparando a vendere, poi fu croupier in estremo Oriente vivendo sulla pelle il brivido dell’azzardo, mentre negli anni Settanta furoreggiò da cabarettista al Derby Club, unico romano ad avere «espugnato» il tempio milanese del cabaret. Tutte scuole di vita che assorbì a mo’ di spugna. Cominciò in televisione coi Torti in faccia di Telemontecarlo, cornice di disfide dialettiche tra due categorie opposte. L’idea gli venne in un bar, assistendo alla scena di un cliente che rompeva le balle al barista, chiedendogli mille precauzioni su come preparare e servire il caffè, col barista che a un dato punto sbottava: «Li mortacci tua, per 750 lire me devi torturà?».

La Rai si accorse delle potenzialità del suo stile, così nacque il fenomeno Aboccaperta. Il Gran Cerimoniere apriva la puntata con un tema da dibattere, innocuo come «crede nell’esistenza degli alieni?», oppure più controverso (per l’epoca) tipo «è ancora importante per l’uomo italiano di oggi l’illibatezza... di lei?». E giù schiaffoni verbali tra le due tifoserie, moderate (e qui sta la differenza essenziale rispetto a oggi, dove tutti si esprimono su tutto senza il filtro di un moderatore) da un conduttore in veste di domatore forte, che apriva le gabbie delle bestie feroci avendo tuttavia il pieno controllo della loro ferinità.

Funari credeva nella democrazia diretta, nutriva un amore viscerale per gli umori del popolo, ma era un capopopolo con un progetto lucido nella testa. Gli autori del libro dicono che Funari fu influencer ante litteram, però bisogna pure aggiungere che possedeva ben altra caratura morale e intellettuale. Non è scontato (come invece ribadito più volte nel libro) che Funari al giorno d’oggi avrebbe fatto sfracelli di like, perché non è detto che la consistenza di cui sopra avrebbe trovato ospitalità nel magma d’inconsistenza di oggidì. Esagerava, forse, in questa propensione a dichiararsi pubblicamente molto ricco?

Può darsi, ma l’esibizionismo gli apparteneva, e comunque l’intento principale di queste apparenti smargiassate era di evidenziare che, nell’animo, era rimasto povero tra i poveri. Il capitolo della politica è interessante, perché aveva le carte per diventare quel che Grillo sarebbe diventato poi, ma le sue discese in campo (tipo la candidatura a sindaco di Milano) risultavano alla fine della fiera fuochi di paglia per vari motivi, primo fra tutti forse la poca oculatezza nel gestire la potenziale avventura governativa.

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SOLDI E POMODORI
Funari era un mito per gli sponsor, li traghettava a vagoni facendo incassare fatturati da capogiro, eppure le televisioni lo cacciavano lo stesso, considerandolo quello che effettivamente era, ovverosia una imprendibile mina vagante. «Volevamo fa’ la pizza ma ci mancava il pomodoro, quando ci abbiamo messo il pomodoro abbiamo scoperto che la pizza era tremendamente più buona». Sono parole di Paolo Bonolis, che accostano la scoperta del pomodoro nelle Americhe alla scoperta di Funari. Giudizio comunque riduttivo, perché Funari era sì “pomodoro”, ma pure una pletora di spezie variegate. Più o meno digeribili, a seconda del livello di apertura della mente di chi lo ascoltava.

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