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L'indice della scollatura termometro della finanza

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Costanza Cavalli
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Cafona, era cafona, Lauren Sanchez, la quasi moglie di Jeff Bezos, alla destra di lui durante la cerimonia di insediamento di Donald Trump, vestita come l’avete vista tutti, tailleur bianco e reggiseno a balconcino, una roba che neanche Claudia Gerini quando faceva Enza («Ma te dovevi cambia’, me pare invece che te sei spoglia’», le dice il marito, Verdone, che la aspetta nella hall dell’albergo). E però, tranne qualche battutina su Mark Zuckerberg cui è caduto lo sguardo proprio “lì”, c’è stato soltanto un accenno, e in sedi private, “ma come si è conciata?”. Inevitabile: di qua e di là dall’Atlantico, i giornali di sinistra non potevano permettersi di scrivere alcunché, sono femministi, parlare di una per l’abbigliamento è così retrogrado. I giornali di destra sono stati più realisti del re: commentare avrebbe significato mostrare il fianco ai dem.

Finché. Finché non è arrivato il New Yorker, che ha resistito meno di una settimana e ha pubblicato un articolo titolato «Che cosa vediamo nella scollatura di Lauren Sanchez». La tesi è che qualche anno fa le tette sono state dichiate un’anticaglia, era il tempo del culo, dimostrato dalla crescente popolarità dei lifting alle chiappe. Vedi mai che - le mode passano – tornano in auge le ghiandole mammarie? Il merito, continua la giornalista Naomi Fry, è anche dell’attrice Sydney Sweeney (dovreste averla vista in due serie, Euphoria e White Lotus), bionda e con il pettone. Sul National Post, Amy Hamm ha scritto che il successo di Sweeney dimostra la fine dell’ideologia woke; e Bridget Phetasy, sullo Spectator, ha lodato il ritorno della “bionda con il davanzale”, che era stata cancellata dal politicamente corretto incapace di umorismo (ovviamente a scriverne, di tette, sono solo donne. Osasse farlo un uomo, minimominimo a Sant’Elena).

 



L’ORLO DEI VESTITI
Ed ecco che la giornalista del New Yorker ha un aggrottamento veterotestamentario: «Non trovo che il ritorno di questa cultura sia motivo per festeggiare», commenta. Cioè scrive di scemenze, ma meglio di quei due giornali conservatori di cui sopra («Felice chi è diverso, essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune», scriveva Sandro Penna, e vabbè). Prosegue: «Oggettificare le donne in modo sprezzante è predatorio. Tenetelo nei pantaloni, perdenti». Si contraddice: «Pensare a che cosa significa guardare il seno, però, è ancora importante». Secondo una teoria sviluppata negli anni Venti dall’economista George Taylor, per constatare lo stato dell’economia bisognava guardare l’orlo delle gonne: più salivano le Borse e più si accorciavano i vestiti. Le gonne avevano lambito le ginocchia negli anni Venti, erano tornate al polpaccio dopo la crisi del ‘29, nel ’64 era arrivata la mini di Mary Quant.

Perché non modifichiamo l’Indice dell’Orlo con l’Indice delle Tette?, è la ficcante proposta della cronista. Tutto questo pensare, scrive, è scaturito da Lauren Sanchez, che certo è “autorizzata a indossare tutto quello che vuole”, ma che “ha cinquantacinque anni e sembra aver apprezzato l’accesso a quel tipo di interventi dermatologici e cosmetici che possono far sembrare le donne della sua classe molto più giovani, più magre e più eleganti”. E tanti cari saluti alla disdicevole oggettificazione delle donne. Insomma, Zuckerberg che lamenta la mancanza di “energia virile” nelle aziende è un cretino, i “tech bro”, gli sciamannati maschietti tecnologici, sono l’ennesima vittoria del patriarcato e la “manosphere”, l’androsfera, è principale colpevole per la vittoria di Trump. Sarà mica colpa loro, invece, dei dem, che si attaccano a un reggiseno e s’inventano l’Indice delle Tette?

 

 

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