Luca Carboni racconta Luca Beatrice: "Rendeva facili le cose più complesse"
Da Luca a Luca, il passaggio emotivo e artistico è stato breve ma intenso. Luca Carboni stimava Luca Beatrice e lo conobbe un giorno quando il nostro caro collega scomparso due giorni fa venne a sapere che l'artista bolognese stava pensando a una mostra di quadri.
Una simile ne aveva già allestita a Mantova e aveva il progetto di ripetere l’esperienza a Bologna. Aveva bisogno, però, di un curatore per il progetto e dall’incontro fra i due Luca è nata “Rio Ari O”, l’esposizione che raccoglie al Museo cittadino della Musica una cinquantina di opere pittoriche del cantautore, realizzate a partire dagli anni ’80, ma non solo. Sentite perché.
Carboni, ha voglia di ricordare il “suo” Luca Beatrice, una firma di Libero che manca già tanto alle nostre pagine e ai nostri lettori?
«Sì, lo faccio volentieri. Luca ha cambiato ma migliorato radicalmente l’idea originaria che avevo di Rio Ari O».
In che senso?
«Pensavo di esporre solo i quadri che, un po’ segretamente, avevo dipinto nel corso dei decenni. Però la produzione del progetto, ovvero Elastica, mi ha fatto conoscere Beatrice».
Che le ha fatto cambiare idea?
«Sì. Al primo incontro, qui a Bologna, ho parlato con Luca della mia idea e lui è rimasto un po’ così. Mi ha detto: “bel progetto ma perché limitare la mostra ai dipinti, vedo la cosa come una testimonianza dell’artista e dell’uomo Luca Carboni, in modo allargato”».
E come l’ha convinta?
«Non ci è voluto molto, nella mostra che rimarrà aperta fino al 9 febbraio ci sono sì i miei quadri ma anche oggetti, copertine di dischi, testi inediti, appunti e memorie personali che partono proprio da quel 1984, l’inizio della mia carriera. Beatrice aveva visto giusto».
L’originalità, per lui, era raccontare Carboni attraverso i dipinti e cose anche pri vate?
«Esatto. Ci sono anche dettagli personali. La mia intenzione era di tenerli nascoste ma i consigli di Beatrice mi hanno convinto ad esporli, ad aprirmi così al pubblico in modo totale. Non mi era mai capitato. Era un attento studioso dell’arte ma seminava la sua intelligenza viva in tutti i settori che frequentava. Mi viene da pensare alla musica, era un grande appassionato delle band degli anni d’oro. Sapeva tutto».
Cosa l’ha colpita di più di lui?
«La grande capacità di sintesi nel racconto. Mi diceva: bisogna far capire alla gente cose difficili ma in modo facile. Le sue intuizioni miglioravano sempre le cose. Insieme siamo spesso giunti a bei compromessi e la mostra è venuta bene per questo».
E di Beatrice privato, cosa ricorda?
«La prima impressione te lo faceva sembrare un po’ snob, superiore alle futili cose del mondo e anche un po’ pigro».
Impressione sbagliata?
«Sbagliatissima. Era in realtà molto profondo, ascoltava attentamente tutto e tutti. Le sue celluline grigie lavoravano a 300 all’ora».
Un ricordo particolare?
«La sensibilità quando gli raccontavo della malattia che mi ha tenuto fuori dalla musica e dai miei lavori per tanto tempo».
Un difetto?
«Ah ah, era juventino. Lui amava la Vecchia Signora e il calcio di Allegri. Non stimava molto quello di Thiago Motta. Non è da Juve, diceva».
E la sua canzone che Beatrice amava in modo particolare?
«Visto che era un po’ sudi peso, lo stuzzicavo sempre con “Ci vuole un fisico bestiale”».
L’ultima volta che vi siete sentiti?
«Pochi giorni fa. Sarebbe dovuto venire a Bologna, in Sala Borsa, per tenere una conferenza dal titolo “Metafisico bestiale”. Non ce ne è stato tempo, purtroppo».