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La lezione di Tolkien: vanità significa rovina, un tesoro ritrovato

Marco Respinti
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L a beatitudine e la tentazione, la virtù e l’hybris, la sublimità e la corruzione, il male e le sue vie oscure, la rovina squarciata dalla redenzione. La cifra narrativa di J.R.R. Tolkien, persino il suo cruccio, è questo sinolo; ed è per questo che Tolkien resta incompreso e travisato. Opportuna, dunque, La caduta di Númenor, un’antologia di suoi testi ben architettata dal curatore Brian Sibley e illustrata dalla maestria di Alan Lee, che Bompiani (pp. 318, euro 35) pubblica in italiano due anni dopo l’originale. Ora, di inedito c’è solo il percorso costruito da Sibley, prolifico scrittore e autore radiofonico inglese, che in luglio ha varcato la soglia dei 75 anni. I testi di Tolkien sono invece arcinoti, estratti dai suoi libri editi e riediti. Cui prodest, allora? Nei decenni, l’opera filologica di scavo e recupero degli inediti realizzata dal figlio dello scrittore, Christopher Tolkien, seguito da qualche studioso vero, ha dissotterrato gemme altrimenti perdute, producendo migliaia di pagine. Ne risulta che forse è più ciò che Tolkien padre non pubblicò di quanto sia finito sugli scaffali delle librerie. E che, nella mole degli inediti, gli incompiuti e gli abbozzi siano la regola fissa. Persino Il Silmarillion, pubblicato da Christopher nel 1977 e in Italia l’anno dopo, contiene solo alcune delle varianti di testi decisivi. Nasce qui la voglia di Sibley di ricostruire una delle trame tolkieniane più potenti in un libro quanto più possibile continuativo, estraendolo con cura dal mare magnum degli originali.

IL SOSPETTO
Diciamolo. Il sospetto che si voglia sfruttare la gallina dalle uova d’oro Tolkien resiste, ma la differenza fra certo ciarpame e opere ben fatte è abissale. Lucrare da un progetto editoriale intelligente non è riciclare non-idee a caro prezzo. E Sibley è delicatissimo nella cucina che propone, quasi timido. Spiega le scelte giustificandole, interviene dove essenziale e mai esagera. Non interpola, non inventa, non primeggia, ma custodisce con cura. Del resto Sibley imita Christopher, che, oltre al “carotaggio” rappresentato da Il Silmarillion, dopo I racconti incompiuti di Númenor e della Terra di Mezzo (1989, in italiano 1981), dopo i 12 volumi (1983-1996) più uno di indici (2002) della Storia della Terra di Mezzo (in corso di pubblicazione in Italia), ha fatto l’eguale con le tre narrazioni della Prima Era che suo padre considerava degne di sviluppi autonomi: Ifigli di Húrin (2017), Beren e Lúthien (2017) e La caduta di Gondolin (2018). Partendo dall’opera imprescindibile di Christopher, Sibley ha dunque cavalcato il calendario, entrando nella Seconda Era. Fedele alla mappa temporale fornita dalla cronologia pubblicata nell’Appendice B de Il Signore degli Anelli, è andato a caccia di ogni brandello di Númenor presente nella bibliografia tolkieniana e ne ha ricavato un volume non facilmente disdegnabile. Ma, a questo punto, che cos’è Númenor?

 

 

Una grande, ultima guerra fu combattuta da Elfi e Uomini per sconfiggere Morgoth, l’arcangelo decaduto. Nell’ora più buia intervenne Eärendil, figlio di madre elfica immortale e di un uomo mortale, atteso dalle profezie. Mosso a pietà, veleggiò nei cieli seguendo la luce della speranza oltre la speranza. Unico in tutto l’universo tolkieniano, raggiunse le Terre Immortali dei Valar, le Potenze celesti, per impetrare soccorso. Stabilì il ponte fra il mondo e il suo oltre. Morgoth fu così vinto e scagliato nel Vuoto. A ricompensa per le sofferenze, le Potenze donarono agli Uomini una terra dove dimorare al riparo dai pericoli: un’isola nel Belegaer, l’oceano che a ovest separava il Reame Beato dei Valar, dove le anime dei morti attendono di compiere il proprio destino, e la Terra di Mezzo. Era Elenna·nórë, la «Terra del dono». Gli Uomini la raggiunsero seguendo la Stella di Eärendil, e del resto l’isola ebbe proprio forma di stella. Vi stabilirono il regno di Númenórë, abbreviato in Númenor, ovvero Westernesse, le Terre occidentali, secondo un raro toponimo in medio inglese che Tolkien mutuò dal manoscritto di metà del XIII secolo King Horn.

LA BATTAGLIA FINALE
Dopo il primo re, Elros, figlio di Eärendil, si succedettero 25 sovrani di una stirpe nobile e potente. Ma l’ultimo, Ar-Pharazôn, sconfitto in battaglia Sauron, luogotenente di Morgoth, ne finì stregato. In pagine sublimi Tolkien descrive la decadenza di Númenor, oramai popolo di mummie viventi e sepolcri imbiancati infatuati solo di sé, e, per effetto dell’Anello di Sauron, gelosi dell’immortalità dei Valar. Quando Ar-Pharazôn prese il mare per muovere l’assalto al Cielo, nel 3319 della Seconda Era, i Valar si volsero a Ilúvatar, il Padre di tutto, e Ilúvatar scatenò il diluvio. Da allora Ar-Pharazôn attende con i suoi nell’oblio: nella battaglia finale, alla chiusa dei tempi, quanto Morgoth tornerà, combatteranno espiando le proprie colpe. E il regno ingrato di Númenor fu inabissato. L’intero mondo da piatto che era venne mutato in sferico e la terra dei Valar, spostata oltre la curvatura del mondo, è preclusa se non a pochi eletti. È raccontato nell’Akallabêth, il libro scritto da Elendil di Númenor, la quale, dopo lo sprofondamento, venne ricordata come Atalantë, la grande leggenda. Perché le leggende non sono bugie, bensì perifrastiche latine: apologhi e parabole che sono da leggere per ammaestrare lo spirito. Sibley ha stilato una guida alla leggenda della Caduta, spingendo il buon vecchio Tolkien a un altro libro affascinante e tragico, pungente e catartico, che il grande narratore inglese non ha mai scritto, anzi sì.

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