Gaetano Bonicelli, monsignore centenario: "Ho lavorato con cinque Papi, con Wojtyla ci davamo del tu"
Monsignor Gaetano Bonicelli ha 100 anni e ha vissuto la storia di questi due secoli accanto ai grandi dell’Italia e del mondo. Ha conosciuto sei Papi (Pio XII, san Giovanni XXIII, san Paolo VI, beato Giovanni Paolo I, san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI) e ha lavorato con cinque di loro («Con Wojtyla avevo un rapporto speciale, più confidenziale»), ha incontrato Presidenti della Repubblica («Pertini era una frana a carte, a Cossiga ho detto no»), ministri, politici e ha viaggiato per i cinque continenti visitando 43 Paesi. Vescovo di Albano Laziale dal 1975 al 1981 e arcivescovo di Siena, Colle di Val d’Elsa e Montalcino dal 1989 al 2001, è stato anche vice assistente nazionale delle Acli (1955-1965) e ordinario militare per l’Italia (1981-1989). Incarichi importanti, eventi epocali, conoscenze speciali («Se ho santi in paradiso? Tre santi e un beato di sicuro, ho avuto il privilegio di frequentarli in vita»): don Tano - mente ancora brillantissima e ricordi lucidi - si racconta e lo fa con grande semplicità. Svelando segreti e aneddoti dei più grandi che ha incontrato.
Monsignor Gaetano Bonicelli, togliamoci subito ogni imbarazzo. Come preferisce essere chiamato?
«Faccia lei. Come vuole».
Un aiutino? Perché sorride?
«Le svelo un segreto: sa come mi chiamava Papa Wojtyla?».
No.
«“Mio generale”, perché mi aveva nominato ordinario militare dell’Italia e gli piaceva scherzare. Un giorno sono in udienza da lui e, appena arrivo al trono papale per il saluto, monsignor Fisichella mi presenta a Wojtyla: “Sua santità, ecco Gaetano Bonicelli, arcivescovo di Siena”. Il Papa lo guarda con occhi severi. Poi risponde: “Il signor generale Bonicelli, anzi il mio generale Bonicelli!”. Fisichella rimane impietrito e alla fine dell’udienza mi prende in disparte: “Eccellenza, mi potevi avvisare: mi hai fatto fare una figuraccia davanti al Santo Padre». Io rido di gusto: “Eh, il Papa è il Papa!”».
Meraviglioso. Ma tornando a noi?
«Di solito, per un vescovo, si usa “Eccellenza”, però mi viene un po’ da ridere. Per gli amici sono don Tano: ecco, mi chiami pure così».
Grazie. Questo suo studio sembra un museo: ci sono foto di lei con gli ultimi Papi.
«Li ho conosciuti tutti, a parte Papa Francesco. Però per i miei 100 anni Bergoglio mi ha fatto arrivare gli auguri dal cardinale Grech, segretario generale del Sinodo».
Poi raccontiamo bene dei Pontefici. A proposito del compleanno, le hanno fatto una festa speciale.
«Da record: erano presenti contemporaneamente 4 cardinali, 27 vescovi e 70 concelebranti. È stato davvero bello. E poi qui a Stezzano sono venuti a trovarmi tanti amici».
Da quanto tempo vive al Santuario della Madonna dei campi?
«Ventitré anni, da quando sono andato via da Siena».
La sua giornata tipo?
«Mi sveglio presto e celebro la messa delle 8. Il resto del tempo lo passo prevalentemente in ufficio: ormai sono zoppo e faccio fatica a camminare. Dopo una vita in giro per il mondo ora sto un po’ fermo: ho visitato 43 Paesi nei cinque continenti, sono stato con Papa Wojtyla nelle Filippine e negli Usa per la giornata Mondiale della gioventù. Il posto più bello che ho visto? Beirut: ci ho passato due Natali con i militari italiani».
Don Tano, torniamo insieme all’inizio del suo viaggio più lungo e bello, quello che dura da 100 anni.
«Nasco a Vilminore di Scalve, in provincia di Bergamo, il 13 dicembre 1924».
Il giorno di santa Lucia.
«Una santa simpatica, soprattutto ai bambini perché porta i regali. Ma in quel caso io sono il dono per mia mamma Cristina. Che però deve affrontare anni difficili».
Perché?
«Francesco, mio padre, quando ho appena 2 anni emigra in Costa d’Oro per cercare lavoro nelle miniere. Lei resta sola e deve sgobbare per tirar su tre figli: io, Vittorio che poi diventerà frate, e Matilde che ha solo pochi mesi».
Che bambino è il piccolo Tano?
«Vivace, tenuto in considerazione dagli altri».
Scuole?
«Fino alla quarta elementare in paese, la quinta da privatista».
Quando arriva la vocazione?
«Al ginnasio grazie al curato di Vilminore, don Daina. Bravissimo, eccezionale. È seguendo lui che decido di entrare in seminario».
Sono gli anni del fascismo.
«Nessuno in quel periodo si meraviglia, per noi ragazzini essere balilla è la normalità: i fascisti organizzano le partite di calcio e gli incontri settimanali del giovedì. E ci offrono cibo».
Poi però scoppia la guerra.
«Lì in valle, fortunatamente, resta tutto abbastanza tranquillo. A parte la fame: si mangia solo polenta e latte».
Nell’aprile del 1945 la liberazione.
«Sono in seminario a Bergamo, in Città Alta, e mi nominano responsabile del Gabinetto di meteorologia in giardino. Manovrando il lungo cannocchiale in dotazione vedo la polvere dell’esercito alleato che viene da Milano verso la città. E urlo a tutti: “Arrivano gli americani!”».
Finito il conflitto torna a casa anche suo padre?
«Non subito, perché gli inglesi lo fanno prigioniero insieme ai tedeschi e lo deportano in Giamaica. Rientra a Bergamo nel luglio del 1946 ed è la prima volta che lo vedo: negli anni ci eravamo scritti delle lettere, ma non c’erano fotografie».
Il 22 maggio 1948 lei viene ordinato sacerdote.
«E dopo due mesi vengo destinato ad Almenno San Salvatore, paese della Bergamasca. Ci resto tre anni, poi improvvisamente perdo la voce».
In che senso?
«Una mattina mi sveglio afono, mi ricoverano e mi fanno un’infinità di esami, ma non guarisco. Il vescovo, allora, mi manda a studiare all’università Cattolica di Milano».
Fondata da Padre Agostino Gemelli.
«Ed è proprio lui, dopo un po’, a suggerirmi il trasferimento alla Sorbona di Parigi da un suo amico».
Lei accetta.
«Inizialmente sono dubbioso, ma poi mi rendo conto che è un’esperienza eccezionale. Imparo il francese e incontro i migliori teologi del periodo tra cui Gabriel Le Bras».
Finiti gli studi (e ritrovata la voce), torna in Italia.
«Divento assistente delle Acli e ho il compito di seguire le associazioni all’estero. E l’8 agosto 1956...».
Che succede?
«Mi spediscono in missione in Belgio per il disastro di Marcinelle».
L’incendio della miniera di carbone che provoca la morte di 262 persone, tra cui 136 nostri immigrati.
«Sono il primo italiano ad arrivare sul luogo del disastro, è tutto distrutto. Un incubo».
Poi altri incarichi tra cui direttore dell’Ufficio Emigrazione, direttore dell’Ufficio nazionale delle Comunicazioni sociali e portavoce della Cei. Finché il 26 agosto 1975 viene consacrato vescovo e Papa Paolo VI le affida la diocesi di Albano Laziale.
«È un territorio ampio, ma soprattutto comprende Castel Gandolfo che ospita la residenza estiva dei Papi».
Parliamone un po’, dei Pontefici con cui ha lavorato. Partiamo da Pio XII (1939-1958).
«Un Papa da Antico Testamento, se raffrontato ai tempi di oggi, ma che ha a cuore i giovani. Nel periodo in cui sono alle Acli lo incontro spesso per discutere dei ragazzi: ci sa fare con loro».
Papa Giovanni XXIII (1958-1963).
«Quando sono bambino lo vedo a Vilminore: lui, in quel periodo monsignore, viene in villeggiatura ospite della famiglia di mio nonno. Il primo incontro vero però è mentre io sono curato ad Almenno».
Raccontiamo.
«Nel 1948 Roncalli è nunzio apostolico in Francia e vogliono invitarlo al Congresso Eucaristico di Vilminore. Allora, per convincerlo, mi mandano a casa sua a Sotto il Monte: 15 km in bicicletta su strade non asfaltate. Arrivo, mi apre la porta, mi vede tutto bianco di polvere e ridacchia: “Stai studiando da Papa?”».
Bellissima. Invece dieci anni dopo sarà proprio lui a diventare Pontefice.
«E a Roma, ogni volta che ci incontriamo e mi accoglie nel suo studio, passiamo i primi minuti parlando in dialetto bergamasco per non scordare le nostre origini».
Di Papa Giovanni è indimenticabile il discorso della “sera della luna”, l’11 ottobre 1962, dopo l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
«Sono io a trattare con la guardia svizzera, d’accordo con Loris Capovilla, suo segretario, per la grande manifestazione e fiaccolata delle Acli.
Piazza S. Pietro è piena e la nostra idea è che Roncalli, che però non sa nulla, si affacci per festeggiare con i fedeli. Capovilla gli domanda: “Santità, viene fuori?”, ma lui risponde di no: “Sono stanco e ho già fatto quello che dovevo fare”. Capovilla insiste: “Guardi almeno giù”. “Va bene, aprite la finestra, benedico e rientro”. Quando Papa Giovanni esce, però, si trova di fronte la luna piena e la piazza in festa, non resiste. E improvvisa, a braccio, “il discorso della luna”, quello della carezza ai bambini che diventa famoso in tutto il mondo».
Lo chiamavano il “Papa buono”.
«È stato sottovalutato. Era buono, ma non bonaccione. Quando ha letto il Gaudet Mater Ecclesia per aprire il Concilio, i teologi francesi piangevano e io l’ho vista la bozza di quel discorso: l’aveva scritta di suo pugno. Papa Giovanni ha sconvolto la Chiesa, non ci sarebbe stato Paolo VI e nemmeno il seguito senza di lui».
Già, eccoci a Paolo VI (1963-1978).
«Mi nomina vescovo e gli devo un’eterna gratitudine. Con lui, in quegli anni, passo ore e ore a chiacchierare, ci troviamo bene e parliamo di tutto. Tanto che la segreteria mi mette sempre come ultimo appuntamento della mattina, in modo che non ci sia fretta. E che lui, a pranzo, arrivi rilassato e di buon umore».
Papa Luciani (26 agosto-28 settembre 1978).
«Lo conosco perché da segretario della Cei vado spesso a Venezia, dove lui è patriarca, a fargli firmare documenti e mi ospita. È triste, perché il clero della città lo snobba etichettandolo come contadino e per lui è un grande dispiacere».
Il suo pontificato dura solo 33 giorni.
«Lo incontro in piazza Sant’Ufficio a Roma il giorno prima dell’inizio del conclave. “Eminentissimo, quando cambi il colore del berrettino da rosso a bianco?”. Lui sorride: “Tranquillo, non ci penso proprio. E non accetterei per questioni di salute, per il cuore”».
Invece dice sì.
«Ho saputo dal cardinale vicino a lui nel conclave che voleva alzarsi e dire che non accettava, ma il suo vicino gli ha detto: “Se il Padreterno ti ha detto di sì per i voti ti darà la forza anche per fare il Papa».
Dopo la sua morte, però, si scatenano i complottisti.
«Volevano fargli l’autopsia, assurdo. Anche se alla fine, viste le congetture circolate, forse sarebbe stato meglio farla».
Il successore di Papa Giovanni Paolo I è Giovanni Paolo II, Papa Wojtyla (1978-2005).
«Tre giorni dopo l’elezione arriva a Castel Gandolfo evado a prenderlo. Terminati i saluti ufficiali mi prende in un angolo: “Gaetano, posso darti del tu?”. Con lui ho avuto un rapporto speciale, confidenziale».
Qualche ricordo?
«Una domenica mi chiama il suo segretario: “Sua Santità la invita a pranzo”. E io: “Non posso, devo celebrare la Messa alle 11. Riuscirei solo se spostassimo il pranzo alle 12.30”. Detto, fatto».
L’ha anche nominata ordinario militare.
«È il 1981 e sono a cena da lui. Usciamo a fare due passi nel parco, mi dice: “Tu faresti bene l’ordinario militare”. Lo guardo sorpreso: “Questa volta i tuoi collaboratori ti hanno ingannato: non so niente di quel mondo, non sono adatto”. E lui: “Non ti obbligo, se non vuoi dimmi pure di no”».
Lei, invece, accetta.
«Fossi tornato ad Albano a dire che avevo detto “no” al Papa, quanti “no” avrei potuto ricevere io come vescovo?».
Buona questa. Wojtyla era anche un grande sportivo, ci sono vostre foto insieme sulla neve.
«Sì, dagli alpini. Ma era anche un grande nuotatore».
Come mai sorride?
«Ad un certo punto fa costruire una piscina, ma lo vedo contrariato. Mi sussurra: “Per cortesia, non dire che me la sono presa con quelli che l’hanno realizzata, ma mancano un paio di metri perché sia olimpionica”».
Il 13 maggio 1981 Papa Wojtyla subisce l’attentato in Piazza San Pietro: il turco Ali Agca gli spara due colpi di pistola ferendolo gravemente.
Don Tano, nel suo libro “Quel tredici dicembre” a cura di Piero Bonicelli lei svela un particolare inedito.
«Sono vescovo di Albano e mi avvisano per telefono. Non vado subito al Gemelli a trovarlo per non disturbare, ma per la convalescenza viene lui a Castel Gandolfo e ci incontriamo. Mi spiega che lo stomaco non funziona più e non riesce a scaricarsi. Poi...».
Poi?
«Il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine, si sveglia e mangia regolarmente, funziona tutto alla perfezione. A raccontarmelo, più avanti, sarà il suo segretario, spiegandomi che secondo il Papa è stata una grazia».
Continuiamo coni Pontefici: Benedetto XVI (2005-2013).
«Intelligente, di grande cultura, parla correntemente sei lingue. Lo conosco quando è ancora cardinale e io sono vescovo a Siena. Una mattina mi telefona: “Voglio venire a pranzo in qualche bel posto con mio fratello e mia sorella. Mi dà un consiglio su dove andare e si aggrega a noi?”. Così gli trovo un ristorante in piazza, sotto il Duomo, in cui ci riservano una saletta privata».
Sì, perché lei, dopo sei anni (1975-1981) a capo della diocesi di Albano e finito l’Ordinariato Militare per raggiunti limiti di età (65 anni), il 14 novembre 1989 viene nominato arcivescovo Metropolita di Siena.
«Una diocesi “delicata” per la Chiesa. La città è da sempre governata dai comunisti e il sindaco è Pierluigi Piccini. All’inizio ci litigo, ma poi i rapporti cambiano e diventano ottimi: lo convinco perfino a venire a messa».
È anche la città del Monte Paschi...
«In quel periodo la banca controlla tutto, è la potenza di Siena. La sua caduta comincia quando D’Alema pretende che compri una banca delle Puglie pagandola cinque volte più di quanto vale...».
A proposito di politici, lei ne ha frequentati tantissimi. Qualcuno che ricorda con particolare simpatia?
«Giovanni Spadolini in quel periodo viene di frequente in Toscana e pranziamo insieme. I suoi collaboratori però ogni volta mettono le mani avanti: “È a dieta, gli basta un’insalatina”. Lui li lascia parlare ma poi, quando restiamo soli, si butta sul cibo fregandosene delle limitazioni».
Altri?
«Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, ama giocare a carte, a scopa. Ci tiene tantissimo ma onestamente è un po’ una frana. E i collaboratori spesso lo lasciano vincere. Quella volta con Francesco Cossiga, invece...».
Che succede?
«Quando è presidente ci incontriamo per lunghe chiacchierate perché, mi spiega, “Lei è diretto e mi trovo bene”. Ogni tanto la segretaria ci interrompe: “Presidente, ha un altro appuntamento e c’è gente che la aspetta”. E lui: “Se vogliono incontrarmi, che aspettino pure, ora sono impegnato con monsignor Bonicelli”. Una volta un mio “no”, però, lo sorprende».
Cioè?
«Io, come ordinario militare, sono generale con tre stelle e lui mi spiega che vorrebbe darmi la quarta stella. Rifiuto cortesemente: “Grazie, lasciamo perdere: chissà quante invidie scatenerebbe”».
Don Tano, ci avviciniamo ai giorni nostri. Lei va in “pensione” dal 2001 e arriva qui a Stezzano.
«Sì, ma con due annidi ritardo. Le racconto un ultimo aneddoto». Prego. «A 75 anni i vescovi diocesiani devono presentare la rinuncia al Papa. È la norma. Così nel 1999 io la trasmetto a Wojtyla, ma quando glielo annunciano lui risponde: “Bonicelli? Ma sta meglio di me, ditegli che resti ancora lì”».
Ultime domande veloci. 1) Ha paura della morte?
«No, ormai alla mia età l’unico sbocco è quello».
2) Come immagina l’aldilà?
«Il Padreterno non può che volerci bene. Sarà bellissimo, come il mondo che ha creato».
3) Si sta meglio ora o si stava meglio 100 anni fa?
«Sono stati fatti tanti passi in avanti, meglio adesso».
4) E la Chiesa è cambiata in meglio o peggio?
«A prima vista si direbbe peggio, con fedeli in calo e poche vocazioni. In realtà però ora vedo più gente pronta ad aiutare gli altri. E questo è il motto che mi accompagna da sempre».
Cioè?
«“Omnibus omnia factus”, faccio tutto per tutti. Sono le parole di san Paolo ai Corinzi».
5) Ha ancora un sogno?
«Finire il mio viaggio al meglio, possibilmente restando in salute fino all’arrivo».
Ultimissima: a quanti anni punta?
«Il prossimo traguardo è 110. Non sarebbe male».