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Social, inversione di tendenza: se ora spuntano le de-influencer

Costanza Cavalli
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Il tempo della consapevolezza arriva sempre la mattina dopo, quando ci si sveglia con la sbornia o con la sete o con un ospite. O con dei bastoni in testa che promettono capelli da sirena, senza bisogno del calore della piastra. «I bigodini non mi avevano fatto chiudere occhio – ha raccontato l’influencer dell’Ohio Diana Wiebe –. I miei capelli poi sono già mossi, era veramente troppo».

Dopo aver riempito cassetti di creme e scrub per il viso, e soprattutto dopo aver letto il conto della carta di credito, Wiebe è diventata un’influencer, ma dalla parte delle cuciture: su Tik Tok, con il nome @depressiondotgov, cerca di de-influenzare i suoi 200mila follower. Insegna a non cadere nelle trappole dei codici sconto, a chiedersi se davvero hanno bisogno di una tazza in più, a inventarsi nuovi abbinamenti con i vestiti nell’armadio. Insomma, a risparmiare. I social sono subdoli, ha spiegato: «Non è come guardare la tv, dove la pubblicità è facile da riconoscere.

Gli influencer sembrano dare i consigli di un amico perché li percepiamo come persone che conosciamo». Povera cara: davvero se un tizio da uno schermo ti offre un tostapane con tanto di sconto personalizzato, sembra che lo stia suggerendo per il tuo bene?

Wiebe non è la sola cui si è accesa la lampadina: la tendenza è nata alla fine della pandemia (culmine degli acquisti online) ed è in crescita dal 2023. L’hashtag #deinfluencing ha accumulato oltre un miliardo e mezzo di visualizzazioni.

Sull’orlo del baratro era Christina Mychaskiw, canadese, 114mila follower su Instagram: «Nel 2019 avevo un debito di 120mila dollari per prestiti studenteschi. Eppure, settimana dopo settimana, continuavo a fare acquisti. Ho toccato il fondo quando ho comprato un paio di stivali che costavano più del mio affitto», ha raccontato. Così ha smesso di guardare i video in cui la gente butta oggetti a vanvera nel carrello del supermercato, mostra gli acquisti fatti (quasi sempre regali delle aziende) spacchettando scatoloni, indossa indumenti appena arrivati.

Malata di shopping compulsivo, Mychaskiw ha abbracciato il minimalismo e ora, dichiara, ha una vita appagante anche senza comprare la prima vaccata che le viene propinata. Il suo consiglio? «Spegni il telefono. Scorrere costantemente contenuti ti rende più propenso a cedere ai messaggi subliminali», è la lezione. «Metti giù il telefono. Ti renderai conto che quello che hai è già abbastanza». Solo che poi non guarderemmo più neanche lei, e allora come li ripaga i debiti?

Altri consigli arrivano da Lucinda Graham, stilista e de-influencer (combinazione schizofrenica): «È come in cucina – ha spiegato alla Bbc –, i piatti che si preparano velocemente non possono competere con quelli che sono stati preparati e cotti per ore, con cura e fatica». Insalatona vs gulash. Così un guardaroba: bisogna scegliere i pezzi con oculatezza, avere la pazienza di sviluppare il proprio gusto, acquistare ciò che piace al di là della moda.
Occhio, ha detto, perché quando compriamo ciò che dicono gli influencer stiamo copiando il loro stile. Nientemeno. Se non fosse che è proprio ciò su cui ha sempre puntato la moda: sentirsi Twiggy quando si comprava una minigonna.

C’è poi chi fa proselitismo puntando sulla sostenibilità: gli imballaggi di plastica, le scatole, le spedizioni, le emissioni di gas serra, l’inquinamento delle acque, i lavoratori sfruttati. Aja Barber, attivista e autrice del libro “CONSUMED: On colonialism, climate change, consumerism & the need for collective change” (ovvero: colonialismo, cambiamento climatico, consumismo e la necessità di un cambiamento collettivo, tutto insieme, sì, in 286 pagine) da anni parla dei danni della fast fashion, le grandi catene che producono indumenti a prezzi stracciati e le cui collezioni cambiano come l’umore degli adolescenti. È convinta che ancora non abbiamo raggiunto il picco dell’influenza da social: intanto più di 100 miliardi di capi di abbigliamento vengono prodotti ogni anno, la metà dei quali finisce in discarica entro 12 mesi. Intanto, le dimensioni del mercato globale dell’influencer marketing sono più che triplicate dal 2019: nel 2024, si stima che abbia raggiunto i 24 miliardi di dollari.

Insomma, che i prodotti pubblicizzati sui social non funzionino, che siano di scarsa qualità, che riducano sul lastrico, che facciano male al pianeta, ai de-influencer, per funzionare, non basterà ammaestrare qualche follower. Pure loro, d’altronde, sono un cascame dell’influencer marketing e fanno parte di quel capitalismo dell’attenzione in cui tutti siamo invischiati: qualunque cosa – sia essa un rossetto o una lezione di vita – pur di non passare un secondo con i nostri pensieri. Era poi quello che diceva Pascal quando scriveva che l’infelicità degli uomini nasce da una causa soltanto, che non sanno starsene soli, in una stanza.

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