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In morte del politicamente corretto. Era ora: un terremoto alla Royal Society

Luca Beatrice
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«Quando una società letteraria è più interessata alla diversità dei suoi scrittori che alla qualità della scrittura, ha cessato di avere ogni ragione di esistere». Parole lapidarie e definitive queste espresse dalla giornalista angloamericana Hadley Freeman sul Sunday Times che esprimono tutto il fastidio della comunità delle lettere inglesi circa l’ennesimo episodio imposto dalla sottocultura del politicamente corretto, voluta dai demagoghi sciocchi dell’inclusione. Una questione che sta davvero stancando e ogni episodio di ribellione, quanto meno di non accettazione, dimostra che in fondo non tutto è perduto e che la cultura, forse, riuscirà a risollevarsi dal peggior conformismo che ha significato, soprattutto, la perdita di valore e di centralità dell’opera.

Una battaglia che intendono portare avanti in parecchi, addirittura più di quanti ci si poteva aspettare considerando una certa adattabilità opportunistica del mondo della cultura di area progressista. La speranza arriva da Londra e dalle dimissioni dei vertici della Royal Society of Literature, storica istituzione fondata nel 1820 da re Giorgio IV di cui è patron attualmente la regina Camilla. Hanno lasciato il presidente esecutivo e la direttrice, accusati di sottomettere la libertà d’espressione dell’arte favorendo criteri alla moda, parole d’ordine del nostro tempo come “diversità” e “inclusione” che mai nessuno aveva considerato un valido criterio per giudicare un romanzo. Tra i critici più acerrimi della linea intrapresa dalla Royal Society alcuni tra i nomi più importanti della letteratura di lingua inglese, come Margaret Atwood, non nuova a muovere pesanti accuse contro il woke, e Ian McEwan. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso si riferisce alla poca solidarietà per Salman Rushdie dopo il grave attentato subito nel 2022. Esprimere un sentimento di vicinanza nei confronti dell’autore dei Versetti satanici avrebbe potuto risultare offensivo verso gli islamici. Una posizione francamente inaccettabile di fronte a un tentato omicidio che fino a prova contraria costituisce un reato ben più grave della presunta discriminazione nei confronti di chicchessia. Questa linea blanda, anzi indifendibile non solo perché si parla di uno scrittore riconosciuto ma soprattutto perché in qualche modo giustifica la violenza, coincide con la presidenza di Bernardine Evaristo, prima donna nera al vertice della Royal Society. Autrice di un romanzo di culto, Ragazzo, donna, altro, vincitrice del Booker Prize proprio ex aequo con la Atwood, aveva dichiarato di preferire l’imparzialità sul caso Rushdie, in linea con il nuovo corso progressista che non ha risparmiato nessuno, neppure la letteratura britannica.

 


L’altra questione che ha mal disposto il mondo della cultura londinese, una delle poche rimasta ancorata su valori conservatori e tradizionali che mettono in cima il valore dell’opera e non questioni razziali e di genere, l’adattarsi alla pressione di movimenti come Black Lives Matter per aprirsi a minoranze etniche che finora non è che abbia prodotto chissà quali capolavori. Un conto però è superare la categoria di maschi, bianchi, borghesi, un altro lavorare con la logica del tutti dentro, l’importante che sia nero. Pesante l’accusa nei confronti della gestione Evaristo, avere “instupidito” la Royal Society. Che essendo una Fondazione elitaria, con una visione della cultura fortemente meritocratica e rispettosa delle tradizioni - il che non vuol dire tradizionale - dove non è facilissimo entrare, anzi ci vogliono requisiti precisi, non può cedere alle tentazioni annacquate di produzioni irrilevanti dal punto di vista culturali e meritevoli solo da un punto di vista etnografico. Nella fretta di includere, l’ultima gestione della Royal Society ha preferito dar spazio alle pubblicazioni «di carattere demografico più che letterario» suona come ulteriore accusa. La ribellione del mondo culturale che conta segna un deciso cambio di direzione a cui guardare con speranza, altra conferma se non dello sgretolamento almeno della crisi di un sistema di giudizio talmente flebile e inconsistente da non poter durare ancora a lungo.

 

 

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