Berizzi studi la storia prima di insultare Rauti
Paolo Berizzi ne ha combinata un’altra. Stavolta però non liquidabile con un’alzata di spalle. Prima, su X, ha criticato il fatto che a pochi passi dal Senato vi fosse un manifesto che ricorda Pino Rauti. Una «vergogna» secondo Berizzi (ma Rauti è stato in Parlamento dal 1972 al 1992). Il giorno dopo, non contento, ha scritto che Rauti sarebbe il «responsabile morale» della strage di Piazza della Loggia, pur essendo sempre stato assolto in tribunale dalle accuse che lo coinvolgevano prima nella strage di Piazza Fontana poi in quella di Brescia del 1974. Una scopiazzatura poco intelligente da wikipedia che non deve stupire in Berizzi, un fanatico dell’antifascismo da tastiera, fazioso e disinformato. L’ho conosciuto durante un talk televisivo e gli feci notare che chi non vede le sfumature è solo un fanatico. E lo dimostra anche per ciò che ha scritto di Pino Rauti, o in totale ignoranza o in totale malafede.
Fu proprio Rauti, con le mozioni congressuali elaborate a partire dal 1976-77 e con il quindicinale “Linea”, a trattenere molti giovani dall’intraprendere la deriva terroristica. Fu Rauti a predicare e insegnare che occorreva superare il paradigma neofascista per aprirsi alla società civile. Un percorso che gli è stato riconosciuto da molti: da Giorgio Galli a Marco Revelli, da Giorgio Bocca a Marco Pannella. Era uscito dal Msi nel 1956 per protesta contro la linea moderata di Michelini e vi era rientrato nel 1969. Non mancò di fare autocritica in una intervista concessa a Giampiero Mughini in cui prese le distanze dall’estremismo giovanile: «Ero uno che non si rendeva conto che era impossibile il ricorso all’esperienza fascista». Al congresso del Msi del 1977 diviene l’intellettuale eretico che predica lo sfondamento a sinistra. Per Piero Ignazi, che per primo ha raccontato con il necessario distacco la storia del Msi, l’idea di Rauti era ardita e nuova: voleva ancorare la politica del partito ai nuovi bisogni, dall’ecologia al femminismo (fu la componente rautiana a dar vita al mensile Eowyn). I giovani che aderivano alla sua corrente detestavano il fascismo caricaturale di chi faceva la gara «a chi è più bravo e veloce ad alzare il braccio».
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Sarà un dirigente rautiano, Generoso Simeone, a immaginare il primo dei Campi Hobbit con Umberto Croppi. Nasce poi il laboratorio culturale della rivista Linea, che analizza numero dopo numero la crisi della sinistra tanto che Giorgio Galli parlerà di «fascisti in camicia rossa». Rauti replicò: «Non abbiamo bisogno della camicia rossa per andare verso il popolo, è sempre stato così». La sua componente in anni di scontro generazionale durissimo ebbe il merito di offrire al mondo attivistico giovanile l’alternativa della metapolitica. Dopo l’uccisione di Alberto Giaquinto nel primo anniversario di Acca Larenzia Rauti firmò sul Secolo un fondo durissimo: «Il terrorismo non è nostro, non è nelle nostre tradizioni, non ha il benché minimo diritto di entrarvi... noi veniamo dal combattentismo, dal volontarismo, dall’arditismo, il battersi a viso aperto, il non colpire mai alle spalle, non emergere vigliaccamente dall’ombra».
Quando nasce An Rauti, arruolatosi a 16 anni nella Rsi, non segue il distacco dalla casa del padre. E commette l’errore retorico che già era stato di Giorgio Almirante nei suoi confronti. Accusa Fini di liquidazionismo. Dopo, i postfascisti non pensarono mai di trasformarlo ufficialmente in un padre nobile, sfruttando la capacità analitica di quel “Gramsci nero” che visse i suoi ultimi anni a bordo campo della destra: «Oggi sono un emarginato – confessava - circondato da rispetto ma emarginato. Non mi invitano mai alle manifestazioni». Ai funerali si assisté a una postuma rivincita sul vecchio avversario Gianfranco Fini, che la folla tentò di aggredire in chiesa. Quel Fini che così mi spiegò il motivo per cui aveva voluto rendere omaggio a Pino Rauti, sfidando l’ira della base: «Volevo, dovevo esserci. Rauti a Fiuggi difese le sue idee. Fu coerente. Altri non ne ebbero il coraggio».
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