Antonio Padellaro stronca Ruffini: "Mister Fisco federatore? Impresa sovrumana..."
«Dev’esserci un Ufficio conio incarichi stravaganti: Ucis». Antonio Padellaro è divertito dal “caso Ruffini”. Ruffini nel senso di Ernesto Maria, anni 55, direttore – da ieri dimissionario – dell’Agenzia delle Entrate in polemica con il governo Meloni e per questo inserito di diritto nella lista dei possibili “federatori” nel centrosinistra. «Ricordo i tempi del “papa straniero”, ora tocca al “federatore”. Ogni tanto ce n’è una». Scrittore, già direttore di Unità e Fatto quotidiano (per il quale è tuttora editorialista), Padellaro stenta a credere a quello di cui sui giornali si legge da giorni: Ruffini (nonostante le smentite del diretto interessato) pronto a scendere in campo. «Il direttore dell’Agenzia delle Entrate federatore? In un Paese come l’Italia? Sarebbe come fare la ola al vigile urbano che ti porta via l’auto con il carro attrezzi. Maddai... Il ruolo è complicato, difficile... E poi bisognerebbe trovare un posto a Sala».
Un passo alla volta, a Sala ci arriviamo. Torniamo al “federatore”.
«Giusto. Chi dovrebbe federare, Ruffini? Schlein e Conte? Complicato. Calenda e Renzi? Impresa immane. Soprattutto: chi si vuole far federare? Non mi risulta che ci sia una corsa... Insomma, mi pare qualcosa di sovrumano».
Diceva di Schlein e Conte.
«Non mi pare che abbiano voglia di farsi federare: il Pd sta andando bene, Conte ha appena respinto l’assalto di Grillo. Perché dovrebbero farsi federare? Ma soprattutto: federarsi per fare cosa? Senza contare che ci sarebbe un altro problema: che fa, il federatore? Federa e se ne va? Ci sarebbe un’ulteriore moltiplicazione delle competizioni personali: aggiungerebbe al centrosinistra un terzo competitore».
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Prima ha ricordato il dibattito sul “papa straniero”.
«Ho memoria. Ricordo, ad esempio, quando uscì fuori il nome di Giuliano Pisapia. Decise di non ricandidarsi per un secondo mandato come sindaco di Milano e puntarono su di lui: nulla di fatto. Poi si parlò di Paolo Gentiloni. Devono essere arrivati al nome del povero Ruffini per esclusione. E lui come prima conseguenza si è dimesso. Porta pure male, essere un papabile federatore».
E veniamo a Sala: lo ha citato perché qualche giorno fa, su Repubblica, si è di fatto proposto come federatore del centro?
«Lo ammetto: ha detto cosa serve per far vincere il centrosinistra, ma mi sono perso. Ha detto una frase complicatissima. Riesce a ritrovarla?».
Eccola: «Serve nell’alleanza una visione più liberal democratica che parli a una parte di elettorato che non vuole sentirsi di destra, ma che è spiazzato da una proposta troppo estrema».
«Ma perché invece di perdersi dietro formule così astruse i leader del centrosinistra non spiegano agli elettori qual è il progetto per vincere? In questo dibattito surreale mancano gli elettori».
I soliti progressisti elitari?
«La politica è fatta di consenso. Gli elettori vorrebbero qualcuno che gli dicesse: secondo i sondaggi se ci mettiamo insieme possiamo vincere e questo è il nostro progetto. Invece a differenza del centrodestra, che crea omogeneità e “tiene insieme”, il centrosinistra non lo fa, ognuno va per conto suo e questo crea smarrimento tra gli elettori».
Il centrodestra si è dato la regola che il leader del primo partito della coalizione diventa automaticamente il candidato premier.
«Ai miei occhi, la destra ha tante pecche, ma perché il centrosinistra non può adottare una regola simile?».
Ma lei condivide o no che al “campo largo”, federatore o meno, serva il centro per tornare a vincere?
«Allora, io da quando faccio questo mestiere sento dire che si vince al centro. A me non risulta. Giorgia Meloni ha vinto a destra. Donald Trump pure. Il centro è un’altra realtà misteriosa: che cos’è il centro? Ma soprattutto: chi l’ha detto che è determinante per vincere? Ci sono altri esempi all’estero che smentiscono questa analisi».
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A quali Paesi pensa?
«Alla Francia. Si faceva un gran parlare di Macron, che certamente vinse attingendo al centro, ma adesso è in enorme difficoltà. Se si tenessero oggi le Presidenziali, all’Eliseo ci andrebbero Mélenchon o Le Pen».
Fatto sta che in Italia, a sinistra, un giorno sì e l’altro pure si ricorda con nostalgia Romano Prodi.
«Intanto il passato non si ripete in automatico. E poi Prodi non era un semplice federatore. Rappresentava un’area moderata che aveva consenso, non è stato “inventato” dall’oggi al domani: aveva qualità, ha battuto due volte, unico a farlo, Silvio Berlusconi».
Tornando a Ruffini: non le sarà sfuggito che ha strizzato l’occhio al centrosinistra quando ha criticato la visione secondo la quale l’Agenzia delle Entrate sarebbe responsabile di estorcere una sorta di «pizzo di Stato».
«Ho letto, ho letto... Ma la frase sul “pizzo di Stato”, che è di Giorgia Meloni, è di quasi tre anni fa. Ruffini avrebbe dovuto pronunciarla prima».