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Marco Minniti e l'incontro tra Trump-Meloni: "Dal presidente belle parole. Cosa deve fare il premier"

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Roberto Tortora
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Intervista sul Foglio a Marco Minniti, ex-ministro dell’Interno e oggi presidente della Fondazione MedOr, fa il punto sulla caduta del regime di Assad in Siria: “In questi anni c’è stato un asse strategico tra Putin ed Erdogan. Se guardiamo a tutte le recenti crisi, dalla Libia alle ex repubbliche socialiste russe, sono sempre tra i protagonisti. Seppure in ogni occasione uno schierato da una parte, e l’altro da quella opposta. Contrapposti anche militarmente, ma in grado sempre di trovare un accordo grazie al comune modo di guardare il mondo attraverso le lenti del nazional imperialismo. In 11 giorni – ricorda Minniti – le formazioni islamiste siriane hanno fatto quello che l’Occidente non è riuscito a fare in 13 anni: mandare via Assad”.

C’è forte, sempre secondo l’ex-ministro, lo zampino di Erdogan in questa partita vinta da al-Jolani: “L’operazione è stata quasi certamente appoggiata, sostenuta ed evocata dalla Turchia con due grandi obiettivi: allargare la zona cuscinetto che la divide dai curdi dell’Ypg e permettere il ritorno dei quasi quattro milioni di profughi siriani che sono ospitati in Turchia. Se Erdogan avesse aspettato una stabilizzazione, l’operazione in Siria sarebbe diventata molto complicata. Invece, con la Russia in difficoltà, Hezbollah e Iran – veri protagonisti della tenuta militare di Assad – ancora gravemente indeboliti dallo scontro con Israele, Erdogan ha potuto agire indisturbato. L’obiettivo iniziale non era far cadere Assad, ma costringerlo a un patto. Infatti i tre ministri degli Esteri turco, russo e iraniano si erano visti a Doha per vedere se ci fossero le condizioni per una soluzione diversa”. Minniti, poi, sempre sulla Turchia apre un concetto di inevitabilità: “Erdogan ha scelto da qualche anno una dottrina delle ‘mani libere’ in questo mondo diventato ormai ‘caoslandia’. Questa strategia si fonda sul fatto che la Turchia gioca con spregiudicatezza e determinazione il suo ruolo geo strategico, pensando sia superiore anche alle compatibilità economico-finanziarie. La Turchia ha raggiunto tassi di inflazione del 90 per cento, ma non è fallita. Perché? Semplicemente perché nessuno può permettersi che fallisca. Può essere un paese Nato, ma partecipare a San Pietroburgo alla riunione dei Brics, può sostenere una milizia islamista, fornire i droni all’Ucraina e intanto non applicare le sanzioni alla Russia senza che nessuno sollevi il caso, lo può fare perché nessuno può permettersi che la Turchia esca dalla Nato”.

In tutto questo, gli Usa di Donald Trump dove si collocano? Sempre Minniti: “In un mondo così interconnesso anche Trump non potrà permettersi un vero isolazionismo. E però cercherà di decidere solo quando sarà la realtà a costringerlo, questo pone all’Europa una sfida: possiamo finalmente arrivare a una politica estera e di difesa comune, l’Italia può giocare questa partita da protagonista perché siamo l’unico paese con un governo stabile. Se non ci muoviamo, più che la Turchia a chiedere l’ingresso in Ue saremo noi a chiedere l’ingresso nella zona di influenza turca: sembra una provocazione ma non lo è. L’incontro tra Trump e Meloni è positivo, il presidente eletto ha speso belle parole per la nostra premier, ma sconsiglierei un ruolo di mediazione tra Ue e Trump”. Con la sua Fondazione MedOr, Minniti cercherà di rendere l’Italia un punto di collegamento tra Stati Uniti, Europa e mediterraneo allargato: “Saremo al servizio del sistema paese, punto di contatto con il mediterraneo allargato. È il primo esperimento del genere, oltre alle partecipate potrebbero entrare anche aziende private. Abbiamo formato quindici giovani diplomatici somali che affiancheranno il presidente Sheikh nella gestione della presenza somala al consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per due anni. Questo si chiama soft power”.

 

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