Antonello Venditti racconta il comunismo al caviale: le sfide in yacht con Bertinotti
Nel mio mondo si dice che le opere d’arte parlino da sole e invece spesso vanno spiegate sennò il significato sfugge e tante persone non le capiscono. Le canzoni, invece, sono piene di parole, il senso sta racchiuso là dentro e la musica ti aiuta a sognare. Però i cantanti parlano, parlano tanto, si raccontano, pure troppo, quando invece basterebbero assoli di chitarra o al piano per farci emozionare molto di più. Parliamoci chiaro, sono un moderato fan di Antonello Venditti.
Quando canta, soprattutto le storie d’amore o i quadretti nostalgici dei tempi della maturità, ammettendo che l’inno composto per la sua Roma è il più bello mai sentito in uno stadio, c’è solo da provare invidia. Ma quando apre il microfono per raccontare la sua versione dei fatti ogni tanto mi innervosisce perché troppe “verità” sono solo strampalate ipotesi, troppo salottiero il suo stile di vita e la presa sulla realtà mai convincente.
Il cantautore del quartiere Trieste ha appena pubblicato un memoir illustrato per Rizzoli Fuori fuoco, che Andrea Scanzi definisce irrinunciabile (beato lui, io libri irrinunciabili non riesco a trovarne da decenni). E per festeggiare l’uscita gli dedica una doppia intervista, lunghissima sul sito de Il Fatto quotidiano e ridotta sulla versione cartacea. Il ragazzo con i Ray Ban anche di notte, scoperti nel 1974 e mai più lasciati, inevitabilmente scivola nel ricordo per questione generazionale, figurarci capita a persone molto più giovani di lui dunque ci sta. E quando ripercorre i tempi con De Gregori, le amicizie con Ivan Graziani e Lucio Battisti, la tristezza per la brutta morte di Rino Gaetano, il dialogo con il giornalista aretino funziona bene.
Altrove giunge improvvisa l’ilarità, ad esempio quando dice «La notte ci trovavamo al Comparone, un ristorante romano che non chiudeva mai. C’era il tavolo degli attori con Mastroianni, quello dei pittori. E poi quello dei cantanti: Io, Dalla, Ron, Zero, De Gregori, a volte Baglioni. A questi tavoli si aggiungevano tranquillamente i “proletari” come Mauro. Non c’erano differenze di classe e tutto era possibile. Altri tempi». Eccoli là i sinistrorsi e i distinguo tra loro, classe colta, borghese, benpensante, e i “proletari” cioè i poracci, ammessi al medesimo desco in uno dei rari esercizi di democrazia dei comunisti, da Berlinguer a Schlein una linea che continua. Confessa, mai bevuto, poche canne niente coca (come Gianfranco Fini) e pare alquanto improbabile, costa nulla credergli. Però sempre stato di sinistra? «Certo. E molto più della sinistra politica, che trovo sempre paludata e vecchia, col perenne senso di colpa di essere borghese. Anche i giovani del Pd sono vecchi e non sanno comunicare».
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TUTTI PAZZI PER VIRGINIA
Ma come, non si ricorda che nel 2016 era tra quelli che si scoprirono tutti pazzi per Virginia (nel senso di Raggi)? Seccato così di brutto il povero Roberto Giachetti e il Pd, contagiando anche Sabrina Ferilli, Fiorella Mannoia, Claudio Santamaria, Lucrezia Lante della Rovere. Roba da quartieri alti, ma l’infatuazione durò poco e non avrebbe potuto essere altrimenti.
Venditti, peraltro, sa come risolvere il problema dell’astensionismo, «bisogna far votare la gente con lo smartphone», tralasciando dunque il significato politico del recarsi alle urne, altro che film della Cortellesi. Qui cerca di fare il moderno e capire i giovani, eppure la sua visione della politica è quella che più piaceva alla vecchia, cara, sinistra, di quando si andava in barca con Bertinotti (anche se aveva fatto cadere Prodi) per arrivare prima di D’Alema che così non trovava parcheggio. Compagni velisti.
Ad Antonello proprio non piace la polizia, non dovrebbe opporsi alle manifestazioni anche se c’è in gioco l’incolumità fisica, che già Pasolini aveva avuto torto a Valle Giulia, «era uno stupendo intellettuale che frequentava certi ambienti pericolosi col macchinone, convinto di poter avere tutto coi soldi e con la fama». Aparte che PPP aveva l’Alfa GT, ma sono dichiarazioni non esenti da omofobia, vecchio difetto del comunismo di matrice sovietica. Ah, se c’è Salvini non suono, minacciò convinto come al Festival dell’Unità degli anni ’70, tranne poi esibirsi per contratto (non c’è ideologia che tenga davanti ai soldi) e ricevere la visita in camerino del leader della Lega. Avrà capito, il cantautore, che le canzoni sono di tutti, anche e forse soprattutto di chi non la pensa come te? E siccome gli vogliamo bene per Notte prima degli esami, Giulio Cesare, Alta marea, Ricordati di me e tantissime altre belle canzoni, non stiamo a sfrucugliare nella recente figura di palta a Barletta con la ragazza autistica. Incidenti che purtroppo capitano a tutti e non diventi per forza un eroe del male. Però la smetta di dire che è stata colpa di un fascista che lo ha provocato, ancora come negli anni ’70 «sono stati i fasci...». Una scemenza, non sarà la prima e neanche l’ultima volta, conoscendolo.
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