Pigi Battista: "Gli anni di Piombo possono tornare, qual è il vero rischio"
Sensazioni di déjà vu, il passato che prova a tornare. Venerdì, al corteo degli studenti di Torino, i manifestanti dietro agli striscioni hanno fatto il gesto delle tre dita, a imitare la P38. Pierluigi Battista c’era l’altra volta, e si ricorda.
Cosa hai pensato quando hai rivisto quelle tre dita? «Ho pensato a quando le vidi allora. Quel gesto si diffuse con il movimento del ’77, fu il simbolo del continuo approssimarsi alla violenza, che da verbale stava diventando sempre più fisica. Come una malattia che si presenta in modo prima episodico e poi si cronicizza».
Tu eri lì.
«Io ho assistito al primo corteo in cui è apparsa la P38. Era il marzo del 1977, un militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, era stato ucciso negli scontri con la polizia, c’erano stati incidenti a Bologna. A Roma il corteo passò davanti a Regina Coeli chiedendo che i detenuti fossero liberati. Venne svaligiata un’armeria: la P38 non era più solo un simbolo».
Quando avvenne, e come, il salto dalle parole e i gesti al piombo?
«Non ci fu un momento preciso in cui la violenza verbale, con quegli slogan atroci, quei gesti trucidi, divenne violenza fisica. La cosa impressionante fu proprio il continuo accorciarsi della distanza tra le parole e i fatti, che finì per annullarsi. Si passò dalle scazzottate alle bastonate, alle spranghe e ai coltelli, e poi alle pistole e agli agguati. Fino alle stragi, come quella avvenuta il 16 marzo del 1978 per rapire Aldo Moro. Si era iniziato con gli incidenti, poi era nato il terrorismo ed erano nati i gruppi che attorno al terrorismo formavano un’area di contiguità».
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Anni da incubo.
«È passata l’idea che gli anni Settanta fossero un po’ cupi, però i giovani di allora fossero ispirati da grandi ideali. Eppure la violenza politica faceva un morto al giorno, letteralmente. Quel decennio ci ha lasciato un lungo martirologio di destra e di sinistra: i fratelli Mattei, uno dei quali aveva dieci anni, furono bruciati vivi in una casa popolare a Primavalle, e a sinistra si fece una campagna per sostenere che i fascisti avevano fatto tutto da soli. Sergio Ramelli massacrato a Milano, e lasciato solo perfino dai professori del suo liceo, Walter Rossi ucciso a Roma. Quartieri neri, come i Parioli e la Balduina, nei quali se entrava un comunista lo corcavano di botte, stessa cosa che accadeva a un fascista se metteva piede in un quartiere rosso. Questo furono gli anni Settanta: il decennio più orribile della storia repubblicana».
L’Italia di oggi è molto diversa. Non ci sono nemmeno più le grandi fabbriche, nelle quali nacque il terrorismo di matrice operaia.
«Ci sono le scuole e le università, però. C’erano anche allora: il giorno in cui rapirono Moro e massacrarono la sua scorta, l’aula della facoltà di Lettere esplose in un applauso frenetico e lunghissimo: i pugni chiusi, “fuori i compagni dalle galere”. Oggi le università, come hanno mostrato i propal, sono sempre più violente e intolleranti, in Italia come nel resto del mondo. Ad alcune persone è stato impedito di parlare. La prossima volta le si picchierà, perché così funziona l’escalation».
Nessuna differenza, quindi?
«La differenza vera è che il Settantasette fu un movimento “di massa”, in piazza scendevano in centomila. Quellodioggièunmovimento di esigue minoranze, staremo parlando di due o tremila persone. Un fenomeno residuale, lo stesso antifascismo non ha più nessun senso per la stragrande maggioranza degli italiani, che lo considera una cosa del passato. Ma se le minoranze delle due parti ripetono i rituali del Novecento, prima o poi l’incidente avviene».
A Bologna si è frapposta la polizia.
«Se si fosse arrivati al confronto fisico tra i centri sociali e Casa Pound ci sarebbe scappato il morto, e sarebbe stato l’inizio di una nuova catena di sangue».
Credi davvero che gli anni di piombo possano tornare?
«Non vedo fenomeni di terrorismo organizzato come furono allora le Brigate rosse, Prima linea e i Nar. Non credo che si stia arrivando a questo, ma a uno scontro duro tra quelli che venivano chiamati gli opposti estremismi. Si sta rievocando quel clima e non si capisce che questo può avere conseguenze tragiche. Basta niente perché scoppi l’incendio. Lo abbiamo già visto: inizi con lo scontro fisico, passi alle coltellate e arrivi agli agguati e alle P38».
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«Questo è il pericolo che vedo. E anche se, onestamente, detesto il linguaggio salviniano delle “zecche rosse”, in questo momento il monopolio della violenza è dei gruppi della sinistra, dei centri sociali. Nei quali si è introdotta una violenza endemica nei confronti del mondo ebraico».
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È l’argomento del tuo ultimo libro, La nuova caccia all’ebreo. Negli anni Settanta questa commistione tra violenza politica e antisemitismo non c’era.
«No, non c’era. C’era una posizione a favore dell’Olp, ma era tutt’altra cosa. Ora vanno in piazza con le foto di Sinwar, si esaltano per le aggressioni di Amsterdam, sfregiano un murale dedicato a Liliana Segre. Il gestore di un cinema non proietta un film su di lei perché ha paura di essere aggredito. Protesta politica e protesta antisemita si stanno saldando, e la cosa incredibile è che il Pd non riesca a dire parole chiare».
Magari perché in quel bacino, per quanto torbido, il Pd intende pescare.
«Forse pescare è un po’ esagerato. Ma stiamo comunque assistendo alla disfatta culturale del mondo riformista dentro il Pd. Io sono convinto che personaggi come Bonaccini, Gori e altri non abbiano niente a che spartire con quella violenza e con la retorica antisistema. Però la cultura che si sta imponendo lì è assolutamente omertosa, quando non complice, nei confronti di questi movimenti».
Anche dal Pd, la polizia è stata accusata di usare il manganello nei confronti dei manifestanti propal.
«Il grosso del corteo del 5 ottobre a Roma si era diretto contro la polizia, che ha impedito ai manifestanti di arrivare alla sinagoga. Stavano puntando verso il ghetto. Di fronte a questo, la prima cosa che tu devi dire è che sono dei cialtroni e dei mascalzoni. Non devi assecondare la retorica del “troppo manganello”».
Perché nel Pd lo fanno?
«Perché è in corso una mutazione genetica che li porterà al disfacimento come forza di governo. E il fatto che il principale partito della sinistra perda sempre più le caratteristiche di partito a vocazione governativa per diventare movimentista, incapace di dire parole chiare su certe cose, è un male per la democrazia».