Sgarbi: «Ecco il mio Matticchio, poetico e surreale».
Il critico d'arte inaugura ad Ascoli Piceno la mostra dedicata al disegnatore del New Yorker: "Per lui gli animali hanno un'anima"
Franco Matticchio è un airone che vola sotto la cresta del mondo. Varesino, classe 57, Matticchio è uno dei maestri mondiali dell’illustrazione e del fumetto (è arrivato a disegnare le copertine del New Yorker oltre a quelle delle collane Garzanti di Scerbanenco e Gadda). È un gigante. Ma il suo è sempre stato un successo, diciamo, di nicchia. Quindi è un dovere morale che il Linus Festival- Festival del fumetto di Elisabetta Sgarbi ad Ascoli Piceno (in corso fino a domani), alla Pinacoteca Civica dedichi a Matticchio la mostra inedita Qualche volta. L’esposizione è composta da otto tavole del racconto Il richiamo della foresta e venti illustrazioni dal tema Umanimali. Il suo padrino d’eccezione è l’altro Sgarbi, Vittorio. Qui in veste di critico.
Caro professor Vittorio Sgarbi, Franco Matticchio - specie col suo bulbo gigante oculare in cravatta, il Signor Ahi e il suo gatto guercio Mr. Jones (editi Rizzoli Lizard) - mi ricorda uno Jacovitti più poetico e meno sovreccitato. Concorda?
«Ricorda più Magritte, direi. Non è un artista semplice ma concettuale, esprime pensieri alati. Tu guardi gli spazi di Franco Matticchio e pensi a Piero della Francesca e, appunto, a Magritte il cui accostamento, per quella vena di surrealismo, è sicuramente il più avvicinabile e il più diretto. Il paragone con Jacovitti è improprio se non su alcuni concetti e nel fatto che di Jacovitti Matticchio sia un estimatore da sempre.
Perché Jacovitti è variegato e molteplice, Matticchio è qualitativo, esplora pensieri sotterranei, il suo è un divertimento concettuale».
Cioè: Jacovitti abbondava e Matticchio va in sottrazione? Intende dire che il secondo è meno immediato?
«Anche. Matticchio è un punto di raccordo fra le “arti inferiori” (così Sgarbi spesso chiama scherzosamente il fumetto e l’illustrazione, ndr) e la pittura. Ma lui non è un illustratore in senso stretto, perché l’insieme delle sue tavole sono come un trattato di filosofia dove si indagano l’uomo e il suo destino.
Penso che Matticchio abbia un carattere pittorico. Anzi, è un pittore figurativo con uno spiccato interesse per l’astrattismo».
Nella mostra compaiono gli “umanimali” di Matticchio, connotati da ironia sottile. Da qui si possono sprecare gli accostamenti. Per esempio, il suo “arpadillo”, l’armadillo che suona l’arpa, non potrebbe evocare il fascino dei bestiari medievali e, al contempo, i sorrisi sottili sulla faccia di pietra di Buster Keaton?
«Il suo rapporto con gli animali è senz’altro particolare, unico. Lui ritiene - come dice l’etimologia stessa- che gli animali abbiano “un’anima”. Che siano creature non da bistrattare come si è fatto nei scoli, ma molto simili all’uomo in quanto strettamente legate al concetto di “creato”. Matticchio pensa questo, e lo esprime con un certo qual lirismo che ne attraversa i gesti più elementari; e - ha ragione lei, buon paragone - Buster Keaton con quella gestualità accarezzata. Keaton è l’equivalente cinematografico di Matticchio».
Matticchio è anche un campione del nonsense che si fa arte.
«Il suo è un nonsense che ha senso».
Matticchio è anche uomo di poche parole. Quando cita il mago dello scatto Elliott Erwitt che dice «il bello della fotografia eè non dover spiegare le cose con le parole» lei crede che pensi anche ai suoi disegni?
«Ovviamente. L’illustratore non è uno scrittore, le parole sono inutili, perché deve fare parlare le immagini. Se lei guarda la sua tavola del gatto col suo padrone, le salta subito all’occhio che quello vivo è il gatto, mentre l’uomo è lì inerte, fisso, direi quasi dominato dal felino».
A differenza dei suoi colleghi militanti che pubblicavano su Linus negli anni 70/80 (e anche un po’ di Tullio Pericoli che l’ha in parte lanciato), Matticchio non è mai politico. Ne conviene?
«No, infatti. Matticchio non è mai schierato politicamente; in questo senso è totalmente avulso dal contesto, rispetto agli altri suoi colleghi coevi. Non c’è traccia di propaganda in lui. E questo è certamente un bene».
In un’intervista alla Lettura del Corriere della sera, Matticchio appare di una smagatezza molto letteraria. Racconta di aver passato anni a girare per gli Uffici “oggetti smarriti” delle stazioni d’Italia, alla ricerca della cartelletta con delle tavole inedite che aveva dimenticato su un treno. Cos’è questa: distrazione senile o senso delle piccole cose?
«Direi che è coerenza con sé stesso. Ricercare le cose scomparse e non ritrovarle è anch’esso un concetto filosofico che indica una ricerca di vita interiore. Al di là dell’immenso talento, Matticchio è esattamente questo».