Vittorio Feltri, la confessione: "Come e perché il latino mi ha cambiato la vita"
Esistono innumerevoli parole ed espressioni che fanno parte del nostro linguaggio quotidiano e che spesso, erroneamente, consideriamo una recente acquisizione dalla lingua inglese. Quando ci sediamo davanti a un monitor, magari per seguire le lezioni di un tutor o per aggiornarci sull’andamento dell’ultimo summit internazionale attraverso i mass-media, ci sentiamo all’avanguardia e fieri di avere dimestichezza con il mondo anglosassone, dimenticando che dobbiamo tanta «modernità» al latino che parlavano i nostri avi.
Nell’insolita veste di cultore di una lingua con la quale ha avuto l’opportunità di confrontarsi fin da giovanissimo, Vittorio Feltri ci regala Il latino lingua immortale (Mondadori, pp. 152, euro 18), con cui risale alle origini di vocaboli e locuzioni di uso comune, illustrandone la genesi e il significato talvolta travisato. Molti resteranno forse delusi scoprendo che il celeberrimo alea iacta est - «il dado è tratto» attribuito a Cesare e da sempre usato per sottolineare l’irrevocabilità di una decisione presa - potrebbe essere frutto di un’errata trascrizione da Svetonio, e che la frase corretta (alea iacta esto, «si lanci il dado») era probabilmente un imperioso invito a gettare il cuore oltre l’ostacolo, in questo caso il Rubicone. Ma nelle brillanti pagine di Feltri, non certo un noioso compendio di letteratura latina, trovano posto gli inevitabili e pungenti accenni all’oggi, sia con poco edificanti esempi di quanto siano attuali il do ut des e l’homo homini lupus, sia, per nostra fortuna, con le storie di personaggi che dimostrano il valore del detto per aspera ad astra. Al di là del tono ironico che sempre contraddistingue Feltri, Il latino lingua immortale è in fondo un’appassionata dichiarazione d’amore per una lingua che, ben lungi dall’essere morta, dimostra ogni giorno, e lo farà ancora a lungo, la forza delle sue radici. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore pubblichiamo di seguito un ampio estratto del primo capitolo intitolato “Le radici visibili e le radici invisibili”.
Io ho un altere go, e qui uso un latinismo di quelli che incontriamo spessissimo. Di questo alter ego vi sarete accorti in tanti, devo dire che non mi dà fastidio per niente, a me di solito l’imitazione di Crozza fa ridere, la trovo divertente. E comunque in buona sostanza di quello che dice me ne frego. Fa ridere meno mia moglie, lei pensa che quella parodia non mi metta in buona luce, si vede che le donne hanno una sensibilità diversa. Un po’ la capisco, Crozza mi dipinge come uno che quasi non riesce a esprimersi se non usando sempre e comunque il turpiloquio.
Non è proprio così, ma è vero che a volte mi saltano un tantino i nervi e allora mi preoccupo veramente poco della buona forma. Io ho sempre fumato, e abbondantemente, ma detesto quelli che poi lanciano i mozziconi per strada, è una maniera incivile e vigliacca di comportarsi, ed è il segno di chi non ha il minimo rispetto per persone e luoghi. Qualche tempo fa ne ho beccato uno che stava lasciando un mozzicone a terra proprio a un passo da casa mia. Ero ovviamente spazientito e gli ho fatto notare che quel gesto faceva semplicemente schifo: «E allora me lo dice lei dove posso metterlo?» mi ha chiesto polemico. «Certo che glielo dico: se lo metta acceso nel sedere.» Così penso di aver fatto contento soprattutto Crozza, gli ho tolto qualche dubbio quando si chiederà se ha azzeccato la mia imitazione.
LE RADICI
Vi rivelerò che esiste un’espressione che nel gergo adottato dai giornalisti si usa piuttosto spesso, l’espressione è in camera caritatis. La traduzione letterale ci porta a un «nella camera della carità», che però non chiarisce granché. Dovremmo prima immaginare che la camera sia in realtà la stanza del potere e che la carità sia invece quella forma di comprensione, di complicità che provvisoriamente esclude il ricorso alle leggi. Quindi, quando un’autorità che detiene un potere sceglie di trattare una mancanza, una piccola violazione, limitandosi a un rimprovero, magari anche in un ambiente appartato, così che altri non sentano, possiamo dire che tutto sia avvenuto in camera caritatis.
Ma il significato assunto nella lingua dei giornalisti è abbastanza diverso. In camera caritatis indica la situazione piuttosto frequente in cui una fonte ti rivela qualcosa ma solo a patto che tu non la scriva. Una confidenza, insomma, che in alcuni casi può essere una notizia anche grossa, che però non potrai riportare tra virgolette sul giornale, non come dichiarazione di qualcuno che ha un nome e un cognome.
Alcuni anni fa, direi poco più di una decina, un programma radiofonico ormai famosissimo, La Zanzara, usa un proprio giornalista imitatore per mandare in diretta una telefonata con Fabrizio Barca, allora ministro per la Coesione territoriale nel governo Monti. Il giornalista si finge Nichi Vendola e immediatamente il tono del dialogo tra lui e Barca diventa confidenziale, al punto che il ministro si lascia andare a dichiarazioni piuttosto forti e decisamente imbarazzanti all’indirizzo del suo governo e anche del suo partito, il Pd. È una diretta, e dunque l’intera chiacchierata finisce in onda e nel giro di pochissimo scatena un putiferio. Interviene infatti anche l’Authority e censura duramente il programma per aver reso pubbliche frasi e riflessioni in realtà espresse solo in camera caritatis.
La sostanza delle dichiarazioni di Barca, invece, è il tema enorme che passa del tutto in secondo piano, anzi addirittura sparisce. È certissimo che il ministro non sapesse di essere in diretta, ma è altrettanto certo che quelli erano i suoi pensieri autentici, pensieri che nessuno gli aveva estorto e che probabilmente col Vendola vero scambiava ogni giorno, e peraltro ho buoni motivi per pensare che accadesse anche con altri suoi colleghi di partito.
Magari ai suoi elettori - anche se Monti e i suoi ministri non campavano né di voti né di elezioni - per una volta non sarà dispiaciuto apprendere ciò che Barca pensava veramente, piuttosto che ascoltare le balle ufficiali rifilate ogni giorno ai microfoni dei tg. Al putridume della guerra sembra proprio che gli uomini non sappiano rinunciare. Dopo l’Ucraina si è aperto purtroppo anche il fronte palestinese, a proposito del quale assisto a polemiche, a cortei, a manifestazioni che sinceramente trovo incomprensibili. Dichiaro da tempo di essere ebreo ad honorem e quindi sono in dissenso totale nei confronti di qualsiasi posizione che si ponga in direzione contraria a Israele. Anzi, ogni volta che leggo o ascolto critiche allo Stato israeliano, spesso rivolte alla sua stessa esistenza, sono amareggiato, e anche molto molto preoccupato. Mi accorgo che qualcuno prova addirittura a trascurare il peso storico delle sofferenze mostruose a cui gli ebrei sono stati sottoposti, come fosse un aspetto della questione che si può anche non considerare.
Hamas ha deliberatamente commesso un atto terroristico, di fronte al quale gli israeliani, e anche le nostre coscienze, non possono non reagire. Il resto è tutto fatto di chiacchiere che nascono da pregiudizi antichi, poco più che becero tifo da bar. Come si può non provare paura, e anche schifo, nei confronti di una situazione nella quale ci sono nazioni che, esplicitamente, hanno come programma la cancellazione dello Stato di Israele? Per questo lo ripeto e lo sottolineo, con tanto di richiamo al nostro latino, sono ebreo ad honorem, non venitemi perciò a parlare di legittimità delle scelte politiche israeliane, io le condivido e le approvo. Sic et simpliciter, senza il bisogno di aggiungere altro.
IL LATINO CHE SI NASCONDE
Non ci facciamo caso, e spesso nemmeno lo sappiamo, ma noi tutti frequentiamo anche un latino sotterraneo, noi tutti non solo parliamo ogni giorno una lingua che dal latino discende, ma usiamo un numero altissimo di espressioni e di parole che hanno attraversato i secoli senza passare per l’italiano, che in qualche modo sono rimaste intatte, più o meno nella forma in cui deve averle usate anche Virgilio.
È curioso che, tra l’altro, intervenga pure la modernità a confonderci un po’ le idee, nel senso che molte di queste espressioni appartengono spesso ai tanti prestiti che giungono fino a noi dalla lingua inglese, ma che in realtà sono a pieno titolo parole originarie del vocabolario latino. Faccio subito un primo esempio: quanti di voi sanno che sponsor è una parola latina e non un termine che nasce direttamente nei templi anglosassoni del marketing? È il sostantivo del verbo spondere che potremmo tradurre con «prendere un impegno». Come vedete, il latino continua a insinuarsi nella nostra comunicazione, e anche in quella di tanti altri paesi del mondo occidentale, molto più di quanto sospettiamo. Non è questa l’unica parola che apparentemente arriva dall’inglese e che in realtà era stata già coniata nel mondo latino. Prendiamo la parola tutor, anche questa è ripresa dall’universo della lingua inglese e da lì poi torna da noi. Con un aspetto rifatto, con una nuova aria esotica, ma in effetti nata dalle nostre parti più di due millenni fa.
Ma davvero possiamo divertirci con una lunga lista di parole che usiamo di continuo e della cui provenienza latina abbiamo ormai smesso di renderci conto. Il motivo è che non ne conosciamo l’atto di nascita, oppure, più semplicemente, che sono diventate routine e dunque nemmeno quel suono vagamente latineggiante ci riporta al mondo di Cicerone.