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Dorothy Johnson, la donna che inventò il west

 Manifesto de "L'uomo che uccise Liberty Valance"

Escono i capolavori della scrittrice come L'uomo chiamato Cavallo e L'albero degli impiccati. Rese un mito la letteratura di frontiera. E ispirò John Ford

Francesco Specchia
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"Dunque, ho ucciso Liberty Valance. Fu la cosa più vicina a un grazie che osò mai dire. E fu allora che Bert Barricune iniziò a essere la sua coscienza, la sua nemesi, il nemico di una vita, l’uomo che lo rese grande”.

Così parlò Ransome Foster, avvocato piedidolci che legge Platone e Shakespeare, ex garzone di saloon, roso dall’idea di vendicarsi del bandito Liberty Valance, la colt più crudele e veloce del west. Solo che Ransome, ora, è diventato giudice, e poi senatore, e politico rispettato da Washington a Santa Fe, e giusto in virtù di quell’omicidio di molti anni addietro, che in realtà venne realizzato, nell’ombra della main street di uno sputo di paese sotto gli Appalachi, da una pistola diversa dalla sua. Liberty Valance, il diavolo, venne ammazzato proprio dal revolver di Bert Barricune al cui funerale emerge, inaspettato, un racconto che fotografa il motto dell’America delle grandi promesse: “Nel vecchio west tra la realtà e la leggenda trionfa sempre la leggenda…”. Ecco. In questo, nell’orizzonte di un mito selvaggio e nelle battute spolverate dal vento, sta il fulcro stesso de L’uomo che uccise Liberty Valance, racconto classico di Dorothy Jonhson ristampato con ottimo successo da Mattioli 1885 (pp 190, euro 17). Liberty Valance, per sei generazioni -da quella di Gianluigi Bonelli creatore di Tex Willer a quella dei miei figli dediti alla Playstation- rappresenta il western perfetto. E’ l’ovest dei pionieri splendidamente oleografato del film omonimo di John Ford; è la tensione fra John Wayne nei panni ruvidi di Bert e Ransom-Jimmy Stewart il quale, nell’imbarazzo, confessa a un giornalista a caccia di scoop la vera versione di un’epopea data per scontata: Ransom non ha mai ucciso un uomo, ma avrebbe fatto carriera nel west se si suoi elettori l’avessero saputo? La domanda rimane nel vento, mentre Ransome posa, di nascosto, un fiore di fico d’india sulla tomba dell’amico-rivale.

L’uomo che uccise Liberty Valance –capolavoro che galoppa sulla narrazione sincopata, asciutta e avviluppante, fatta di immagini, dialoghi precisi e sottrazioni stilistiche di Dorothy Johnson- oltre alla novella che dà il titolo al libro, contiene Un uomo chiamato cavallo, dal quale è stato tratto l’omonimo film anni 70 di Elliot Silverstein, con Richard Harris appeso per il petto nell’impressionante Danza del sole dei Piedi neri, tra i capisaldi del cosiddetto «western revisionista». E s’aggiunge anche il romanzo breve L’albero degli impiccati, adattato per il cinema da Delmer Daves, Gary Cooper protagonista. A chiosa della raccolta, ecco apparire la storia forse più complessa e socialmente impegnata di Johnson: Una sorella scomparsa, incentrata sul faticoso ritorno a casa di Bessie, rapita dagli indiani quando era poco più di una bambina e ormai membro a tutti gli effetti della tribù dalla quale è stata prelevata, al punto di subire la presunta liberazione come un tragico imprigionamento, e preferirle la fuga. “Bessie aveva davvero vissuto un’esperienza terribile, ma non del tipo che le sorelle avevano in mente. Le sue sofferenze, quando arrivò, provenivano dall’essere stata strappata alla propria gente, gli indiani, e consegnata a estranei. Non era stata liberata. Era stata fatta prigioniera”, pensa la protagonista, annegata in una realtà costruita di soprusi, violenze, cercatori d’oro e di scalpi, uomini che tentano di nascondere il passato e donne che inseguono disperatamente il futuro che magari è qualcosa di più di un ranch affollato da vacche e braccianti, e qualcosa di meno del tepee nel cuore d’un villaggio d’indiani Crow. Che poi, alla fine, della riscoperta di questa “letteratura di frontiera”, si staglia, all’apice della sua maturità espressiva, proprio lei, Dorothy Marie Johnson. La donna che, di fatto, inventò il West.

A lei, negli anni, si sono ispirati il Cormac McCarthy di Meridiano di sangue, Sam Shepard, Joe Lansdale, E.L. Doctorow, il John Williams che scrisse Butcher’s Crossing prima dell’acclamato Stoner. Per molti critici Dorothy è talmente asciutta da far apparire Hemingway ridondante. Ma è la sua storia a renderne terragno stile e carattere. Dorothy era nata nel 1905 in Iowa e vissuta a New York dove lavorava come cronista e publisher ed era finita nel Montana a intrecciare 17 tra racconti e romanzi; ed era divenuta membro ufficiale della tribù dei piedi neri col nome di “Kill Booth Planes” arrivando ad intasarsi di peyote da cerimonia sacra. “Margaret avrebbe potuto capire che una donna indiana non fosse in grado di conversare in una lingua civilizzata, ma sua sorella non era indiana. Bessie era bianca, quindi avrebbe dovuto parlare la lingua delle sorelle, la lingua che non sentiva da quando era bambina”, racconta nella Sorella scomparsa: Dorothy era il prototipo suffragista dell’indipendenza americana. Sia perché combatteva apertamente ignoranza, pregiudizi e razzismo dal lato delle “pari opportunità”; sia perché la sua rappresentazione del west svincolava dagli stereotipi del genere. Gli eroi maschi di Dorothy sono tosti ma non invincibili, le eroine donne passano da una vasta gamma di topi umani che spazia da Pocahontas a Calamity Jane; gli indiani (proprio così, “indiani” non “nativi”, perché così si chiamavano a quei tempi senza lo spauracchio della cancel culture) erano sì feroci ma, al contempo, vittime dei bianchi che ne avevano sottratto le terre, come racconterà tutto il “western revisionista” americano anni ’70-’80 da Soldato blu a Piccolo grande uomo a Balla coi lupi. Nonostante tutto questo, Dorothy Johnson subì la leggenda delle sue opere, non irruppe mai apertamente nei libri di storia, non divenne mai maître à penser. Morì nel 1984, ghermita dal morbo di Parkinson. Gli esegeti affermano che, in fondo, fece più lei nella lotta al patriarcato che l’intero movimento femminista americano dei tempi di Berkeley. Consiglierei di leggere il libro e di guardarsi, contemporaneamente, con la coda nell’occhio, il film di John Ford. Tra la realtà e la leggenda…

 

 

 

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