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Gennaro Sangiuliano, la vendetta: un libro sulle gaffe degli altri

Giovanni Sallusti
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La vendetta di Gennaro Sangiuliano rischia di rappresentare un caso da manuale di questa prassi umana, forse troppo umana, eppure a volte in grado di diventare un’arte a sé. Ulisse nasconde la propria identità sotto i cenci del mendicante prima di saldare spettacolarmente i conti coi Proci, Edmond Dantès la moltiplica in un gioco di specchi, fino a diventare il conte di Montecristo e inchiodare tutti i persecutori. Più modestamente, ma con una ferrea applicazione del contrappasso, il ministro della Cultura si accinge a ribaltare contro i suoi avversari il loro stesso stigma. L’errore, la gaffe, la sbavatura. Attenzione, perché fa parte dell’umano, forse addirittura è la sua essenza, la vera piega di un legno storto che non potrà mai essere raddrizzato. È la trama stessa della (tragi)commedia umana, e se qualcuno si autocolloca al di fuori di essa e inizia ad additare l’errore altrui, dandosi di gomito con altri censori improbabili, si espone a un rischio esiziale: che qualcuno lo ritiri dentro, gli strappi la matita blu e la rivolti contro di lui. Se a farlo poi è la vittima, ecco che il cerchio si chiude, come in tutte le vendette riuscite.

La vendetta di Gennaro Sangiuliano assumerà le sembianze di un «agile libretto», come ha rivelato in una conversazione con Il Foglio, intitolato “Le gaffe degli altri”. Di tutti quelli che hanno voluto incatenarlo a un lapsus, a un nome sbagliato, a un anacronismo involontario. Si sono divertiti parecchio, quando la foga oratoria gli ha fatto collocare la newyorkese Times Square a Londra. O quando si è sicuramente innamorato troppo delle proprie elocubrazioni, attribuendo a Cristoforo Colombo l’intenzione di seguire nella sua impresa oceanica “le teorie di Galileo Galilei”.

O quando ha ingenuamente squarciato il velo dell’ipocrisia dei premi letterari, i cui giurati raramente leggono i libri in gara, ma ancora più raramente lo ammettono. Il guaio, per gli “altri”, è che Sangiuliano non si esaurisce in quest’attitudine retorica un po’ troppo disinvolta, Sangiuliano è uomo di cultura non solo nominalmente, e soprattutto di sconfinate relazioni. «Ho tante fonti nei giornalisti e nelle redazioni. Conservo tutto e poi ci divertiremo». E in effetti il risultato si preannuncia divertente: i castigamatti castigati, i pignoli sbugiardati, i «venerati maestri» ricondotti a «soliti stronzi», avrebbe detto quel geniaccio di Alberto Arbasino. E anticipa qualche nome, Sangiuliano, altrettanti antipasti della vendetta, un po’ prologo di Kill Bill e un po’ allegra perfidia partenepopea a cui non sa rinunciare. «Luca Bottura ha confuso un ministro croato con quello di un altro paese». Proprio il genere di cose per cui il maestrino del luogocomunismo social avrebbe passato il giorno a postare compulsivamente contro il malcapitato autore dello sbaglio. «Francesco Merlo ha scambiato Polignano con Putignano e si è inventato la parola innito che non esiste». Merlo uccellato, pulpito franato. «Paolo Mereghetti sul Corriere ha confuso Gianni Schicchi, quello dell’opera di Puccini, con Riccardo Schicchi, quello di Cicciolina». Forse un cortocircuito adolescenzial-ormonale, sicuramente un erroraccio.

 

Ma ecco lo spoiler-principe: «E vogliamo parlare dei libri di Renzi? Ogni dieci righe un errore: ha collocato una battaglia che si svolse a Pistoia a Firenze per licenza poetica». Il ministro si riferisce all’opera “Stil novo”: l’allora sindaco spostò nel rione fiorentino di Gaviniana la battaglia avvenuta nel 1530 a Gaviniana, paesino del Pistoiese, decisiva per la capitolazione della Repubblica e il ritorno dei Medici. Insomma, era proprio terreno geografico e memorialistico suo, eppure il Rottamatore rottamò la storia. E Sangiuliano ricorda, spulcia, riprende. «Il più furbo è stato Gramellini che si è consegnato e mi ha detto: è inutile che cerchi errori, te li segnalo io direttamente». Non si è rubrichisti di prima sul Corriere se non si ha un innato talento per fiutare le grane e scansarle, o quantomeno convertirle in paraculismo di categoria.

Non si può arrestare la macchina consequenziale della vendetta, si può solo chinare il capo e aspettare che passi. Perché aveva ragione Michel de Montaigne: «È una dolce passione la vendetta, di grande peso e naturale». Per questo un uomo di mondo come il ministro Sangiuliano la sa coltivare. Con calma, sistematicità, fin spensieratezza. È il suo incolmabile vantaggio: i suoi avversari indugiano in quel difetto piccolo-borghese che Jean-Paul Sartre chiamava “spirito di serietà”. Sommato all’inciampo dell’errore, alla non credibilità del sussiego, è letale.

 

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