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Indro Montanelli, il diavolaccio e la strategia anti-Pci

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Francesco Damato
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Domani sarà martedì come lo era il 25 giugno 1974, quando esordì Il Giornale fondato da Indro Montanelli dopo avere lasciato il Corriere della Sera e avere accettato una breve ospitalità alla Stampa. Che fatica e che caldo in quei giorni nella soffitta di Piazza di Pietra, dove Gianni Granzotto aveva trovato e affittato la sede della redazione romana, scelta per la vicinanza non so se più alla Camera, al Senato e a Palazzo Chigi o all’abitazione capitolina di Indro Montanelli. Che era in Piazza Navona. A piedi veniva, dall’albergo di Piazza Montecitorio dove alloggiava quando era a Roma, anche Giovanni Spadolini: più frequentemente e lestamente dello stesso Montanelli, al quale peraltro doveva in tutti i sensi l’elezione al Senato nel 1972. Era stato Montanelli a perorarne la candidatura all’amico Ugo La Malfa nelle liste del Partito Repubblicano, dopo il licenziamento da direttore del Corriere per essere sostituito da Piero Ottone. Che poi si sarebbe lasciato portar via - per sua stessa ammissione - “l’argenteria” di via Solferino, a Milano, da Montanelli e da Enzo Bettiza.

TELEFONI CALDI
Spadolini, che qualche mese dopo sarebbe arrivato al governo, nel bicolore Moro-La Malfa, per capeggiare il Ministero dei Beni Culturali allestitogli con un decreto legge, aveva praticamente trasformato quella nostra soffitta in un supplemento del proprio ufficio. Veniva in ogni ora della giornata, si accomodava alla prima postazione libera che trovava, purché provvista di telefono, tirava fuori la rubrica e chiamava un’infinità di persone. A volte arrivava Montanelli e lui neppure si alzava a salutarlo, tanto era preso dalle ricognizioni telefoniche. E Montanelli ci guardava come per scusarsi al suo posto e chiederci comprensione. A parte il caldo malamente fronteggiato da un condizionatore più volte guasto che funzionante, l’aria che doveva respirarsi in quella soffitta, come nella più ampia sede milanese, avrebbe dovuto essere rigorosamente laica. Oltre allo Spadolini occupante della redazione romana, era stato fino ad allora dichiaratamente, orgogliosamente elettore repubblicano Montanelli. Liberale di cultura già quando era stato selezionato e assunto da giovane come funzionario del Pci da Giancarlo Pajetta, il mio amico Bettiza era tornato ad esserlo a tutti gli effetti guadagnandosi politicamente a Milano una corte a dir poco spietata di Giovanni Malagodi. Liberale, destinato a diventare pure lui senatore, come Bettiza, era anche Cesare Zappulli, pur esponendo nella sua stanza, a Roma, l’immagine inseparabile di San Gennaro. Davanti alla quale egli si faceva il segno della croce prima di sedersi o di scrivere il suo articolo di giornata. Di cui Montanelli si doleva quasi sistematicamente perché finiva per essere, di contenuto e di lunghezza, diverso da quello su cui si erano accordati a voce.

 


SAN GENNARO
L’aria, dicevo, doveva essere rigorosamente e compiutamente laica col permesso di San Gennaro. Ma con l’avventura del Giornale quel diavolaccio di Montanelli aveva deciso di aiutare più la Dc che i partiti laici per proteggerla insieme dai tentacoli del “compromesso storico”, allungati dal segretario del Pci Enrico Berlinguer, e dal rischio di un sorpasso comunista generale. Che minacciava lo scudo crociato dopo la sconfitta referendaria sul divorzio proprio di quel 1974, cui sarebbe seguito il sorpasso nelle elezioni regionali del 1975. Pancia a terra, naso turato e tutti a votare - era praticamente la linea di Montanelli- per la Democrazia Cristiana. Che non poteva recuperare voti o guadagnarne di nuovi se non a scapito dei vecchi e minori alleati laici. A Gianfranco Piazzesi, proveniente pure lui dal Corriere, chiamato in redazione “il chiorba” come Montanelli “il cilindro”, arrivò subito al naso odore di un qualche accordo con i comunisti, considerandolo “ineluttabile” quasi quanto Ugo La Malfa vice di Moro a Palazzo Chigi dal novembre 1974. E provò a convincere Montanelli che non sarebbe poi stata la fine del mondo.

Ma si procurò una ramanzina, tutta aspirata toscanamente, dalla quale- presente allo scontro- capii che le loro strade erano destinate a separarsi. Come poi del resto, ai tempi successivi di Bettino Craxi, erano destinate anche le nostre. Ma non solo a Piazzesi nella soffitta romana di Piazza San Pietro ma anche all’amico La Malfa in persona e in pubblico Montanelli riservò un trattamento abrasivo per contestarne la rassegnazione, e qualcosa forse di più, ad un passaggio che sarebbe stato poi definito di “solidarietà nazionale”. Scrisse di lui come di un “irriconoscibile”, che aveva “perduto la testa”. Poi naturalmente si riconciliarono, come con Giulio Andreotti. Che una volta, ricevendolo nel suo studio dove lo avevo accompagnato, anche quello a pochi passi dalla redazione romana del Giornale, disse ironicamente a Montanelli di togliersi pure la molletta dal naso per parlargli. Un po’ come di recente il saluto della Meloni al presidente della regione campana che le aveva dato della “stronza”. 

 

 

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