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La revolucion di Papa Francesco

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Non è un caso che oggi i più grandi avversari del politicamente corretto siano due argentini con un «caliente» sangue italiano: Javier Milei e Jorge Mario Bergoglio. Il presidente dell’Argentina ha vinto le elezioni con la motosega e un linguaggio ardente, colorato, che va dritto al punto. Cito Milei perché in questa storia c’è una questione di carattere, di temperamento, di latitudine, di pensiero non ancora annientato dal conformismo, una «revolución».

Papa Francesco con il passare del tempo ha accentuato la sua insofferenza verso il dominio del relativismo e la falsificazione della parola. Anch’egli va dritto al punto. Nel 2013 il Pontefice esortò i fedeli a non usare «un linguaggio socialmente educato» che diventa «ipocrisia», ricordando che «la mitezza che Gesù vuole da noi non ha niente, non ha niente di questa adulazione, con questo modo zuccherato di andare avanti. Niente!». Francesco faceva l’esempio dei bambini che con la loro innocenza sanno parlar chiaro, fino all’uso della parolaccia, esibita con la naturalezza della divertita verità. Se queste sono le premesse, la frase che viene attribuita a Bergoglio a proposito della presenza degli omosessuali nei seminari («c’è già troppa frociaggine») può sorprendere gli imparruccati e far scattare la ronda della buoncostume del linguaggio, ma è il Papa argentino che si esprime in modo netto (con le parole della lingua popolare, nel romanesco dei sonetti del Giuseppe Gioacchino Belli, fustigatore della Roma dei sei Papi in cui visse dal 1791 al 1863), trasmette le sue idee (con il dito alzato, dicono) su come devono essere selezionati i seminaristi (...)

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