Beethoven, il genio immenso e sfortunato che mise in musica la gioia
Il 7 maggio 1824, a Vienna, di fronte a un migliaio di persone, fu eseguita per la prima volta la Nona Sinfonia. Sono passati duecento anni da quel venerdì imperituro per la musica, in cui la personalità e il genio di Ludwig van Beethoven sono stati setacciati fin nel più intimo recesso. D’altronde il compositore è un gigante, è universale, le sue opere sanno emozionare perfino chi di musica classica capisce poco o nulla.
Beethoven è anche un’icona: i tratti della sua faccia leonina, possente, corrucciata, quando non apertamente arrabbiata, ruggiscono dai suoi famosi ritratti. Egli è passato alla storia con lo stigma del ribelle, confortato da un temperamento propenso all’ira e per certo indomabile; è stato insomma un perfetto anticipatore del romanticismo. In verità, era un uomo buono e tremendamente sfortunato. La sua musica era troppo avanti per i suoi tempi e, sebbene nobili mecenati ne proteggessero l’astro luminoso, i cordoni della borsa non erano sufficientemente allentati. Ma non furono solo le ristrettezze economiche a martoriare la sua esistenza. La ricorrenza che si celebra domani - un glorioso giubileo dello spirito del mondo- si svolse infatti nel tripudio del pubblico, ma l’unico a non sentire il concerto fu proprio lui, Ludwig van Beethoven.
Era infatti completamente sordo da almeno sette anni: colui che disputa il podio di primo in assoluto con Bach e Mozart, non udì mai il suo capolavoro. «Quando Beethoven comparve, fu accolto da cinque salve di applausi (...) La Sinfonia sollevò un entusiasmo frenetico, e molti non seppero trattenere le lacrime», scrive Romain Rolland nella sua celebre e breve biografia (Beethoven, La vita felice, p. 118, €12) in cui ricorda che fu necessario l’intervento della polizia per riportare un po’ d’ordine e che, dopo il concerto, Beethoven svenne per l’emozione; passò la notte da un amico, senza neanche cambiarsi d’abito, non riuscendo a bere né a mangiare fino al giorno successivo.
LE LETTERE
L’utile postfazione, corredata di frasi celebri del compositore e di alcune lettere particolarmente toccanti, aggiunge che formalmente era stato Beethoven a dirigere, ma in realtà si limitava a battere il tempo e il vero direttore era Michael Umlauf, abilmente nascosto alla vista del pubblico. E quando quest’ultimo esplose in un applauso fragoroso alla fine dell’Inno alla gioia, Beethoven, non sentendo il frastuono della sala, continuò a guardare il coro, finché una contralto non gli si avvicinò per farlo girare verso la platea.
È un racconto che muove a pietà.
Sentimento che egli non volle tollerare; pur di non essere compatito si era nascosto ai suoi simili, passando per misantropo: «Evito tutti, poiché non posso andare a dire alla gente: “Sono sordo”. (...) Per un musicista, la situazione è terribile. Che cosa direbbero i miei nemici, che non sono certo pochi?». La sordità aveva iniziato ad affliggerlo giovanissimo, in una progressione fatale che avrebbe minato la sua vita.
La quale del resto non fu tenera con Ludwig, disseminando il suo cammino di problemi familiari e sentimentali. Aveva perduto la madre ancora bambino; il padre era un cantante alcolizzato. Diventato capofamiglia, si occupò dei fratelli minori e di un nipote tanto amato quanto scellerato. Le donne, le ha avute, avvenenti, colte e di alta estrazione sociale, ma proprio per questo alla lunga sposavano il buon partito imposto dalla famiglia.
Fin qui, le disgrazie. Armi spuntate contro la titanica volontà di Beethoven, consapevole del suo talento e del suo posto nel mondo: «Se lascio dormire la musa è soltanto perché si risvegli, in seguito, più forte di prima». A differenza dell’inafferrabile Mozart, Beethoven era coltissimo, un forte lettore di classici e, a suo modo, politico: secondo una leggenda, teneva il busto del tirannicida Bruto sul pianoforte per significare il rifiuto del dispotismo. Trovava conforto alla solitudine di numero primo leggendo Plutarco. Amava Schiller, di cui infatti musica l’Inno alla gioia, ma anche la filosofia: Kant e Hegel risuonano nel suo complesso universo sonoro. Aveva trovato tempo per studiare letteratura all’Università di Bonn, ma restando fedele alla sua musa, nonostante il padre lo avesse tormentato con interminabili sessioni al piano fin dall’infanzia, nella speranza di trarre profitto dal suo talento.
Ma non era il denaro la moneta di scambio per il gigante scomodo di Bonn, da molti giudicato “selvatico” e “intrattabile”, eppure capace di slanci di immensurabile tenerezza, nei confronti delle donne che ha amato, ma anche degli amici e dei parenti non propriamente all’altezza che la sorte gli aveva assegnato. La moneta di scambio di Beethoven era l’eternità, cosa di cui doveva essere consapevole, quando affermava di scrivere musica per l’umanità futura. Guardava avanti con il cuore in tumulto. E così morì, il 26 marzo 1827, a soli 56 anni, del tutto infermo. Esalò l’ultimo respiro mentre infuriava una tempesta di neve, nell’istante in cui il tuono rullava i suoi tamburi.