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Donatella Di Cesare, perché la prof filo-Br ora si deve dimettere

Francesco Specchia
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Il discrimine è essenziale. La linea di demarcazione fra un bravo docente che allarga l’orizzonte dei propri allievi e un docente inutilmente ristretto nella sua ideologia sta nel rispetto della memoria collettiva e del senso dell’onore. Alla prima categoria appartiene Marco Luigi Bassani; alla seconda, inevitabilmente, Donatella Di Cesare. Giusto per inquadrare. Bassani è l’apprezzatissimo ordinario di Storia delle dottrine politiche che - attraverso una toccante lettera pubblica a Libero - ha lasciato l’Università Statale di Milano in cui militava con il rigore letterario di un Mister Chips, dopo essere finito nel frullatore dell’indignazione woke a causa di un meme sarcastico (non bellissimo, in verità) su Kamala Harris.

Sanzionato con un mese di sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio, additato al pubblico ludibrio per sessismo e maschilismo, Bassani si è coerentemente dimesso per la «polizia del pensiero» imperante nell’Ateneo col quale s’era rotto il rapporto di fiducia; e lo ha fatto anche a causa della scarsissima solidarietà ricevuta dai colleghi perlopiù progressisti. Nulla di nuovo, in realtà. Di Cesare insegna Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. È colei la quale, dopo aver vergato un tweet devastante in memoria della brigatista rossa Barbara Balzerani («La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna#barbarabalzerani»), si è resa protagonista di tre cappellate progressive, inanellate senza pudore: 1) accortasi dell’urticante difesa dell’ultimo capo delle Br pluriomicida, ha tentato di cancellare il succitato tweet che però era già stato screenshottato da Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia, uno che dello snidare i terroristi oramai ci fa un punto d’onore; 2) ha balbettato una giustificazione legata a un pavloviano moto di «vicinanza generazionale», diluita però nell’oppressivo e nostalgico desiderio di sovvertire il capitalismo; 3) intervistata dal Corriere della sera, non solo non si è scusata per le sua oscena elegia, ma si è detta «vittima di attacchi pretestuosi». Lei.

 

 

 

Naturalmente, la professoressa Di Cesare dopo aver inneggiato a una terrorista amica sua e ai di lei ideali, non soltanto non ha minimamente accennato a dimissioni, ma si è ancor più saldamente abbarbicata alla poltrona. E quando la collega Alessandra Arachi del Corriere le ha fatto notare che la sua rettrice Antonella Polimeni aveva espresso «ufficiale sconcerto a nome di tutta la comunità accademica», dato «l’altissimo tributo di sangue pagato dall’Università La Sapienza nella stagione del terrorismo» be’, in quel preciso momento la filosofa ha risposto facendo spallucce, «non mi lascio ingannare da domande così». Compagni che sbagliano, fragorosamente. In soldoni: per un meme satirico Bassani s’è dimesso, per l’esaltazione di una terrorista, Di Cesare è ancora accademicamente a piede libero. C’è qualcosa che non torna.

A questo si potrebbe aggiungere il commento di Paolo Berizzi, bravo collega di Repubblica, specializzato in fascisterie, il quale ci ha messo un altro carico: «Non toccate la Di Cesare se prima non avete condannato le braccia tese di Acca Larenzia». Che, onestamente, è il tipico argomento fantoccio della retorica classica: c’entra come i cavoli a merenda. Ma, cogliendo il tuo invito, caro Paolo, condanniamo senz’altro i saluti romani, anche se il diritto di condannare le stronzate della Di Cesare credevamo avesse effetto retroattivo. Detto ciò, un altro collega della stessa testata di Berizzi, Stefano Cappellini ha articolato un ragionamento completamente diverso. Ha ricordato l’ipocrisia della filosofa tra le sue posizioni strenuamente pacifiste contro l’invio di armi in Ucraina e il sostegno agli ideali di lotta armata delle Brigate Rosse. «La contraddizione è palese ma è spiegabilissima con l’ostentazione – per chi la pensa come Di Cesare – di un privilegio che è in realtà un puro pregiudizio politico» scrive Cappellini «la vecchia pretesa di un pezzo di sinistra, fortunatamente minoritaria, di stabilire a proprio insindacabile parere quando la violenza va bene e quando no, quando le armi sono giuste e quando sono guerrafondaie oppure, anche quando le armi non vanno del tutto bene, come nel caso di Balzerani (“le vie diverse”), di riconoscere comprensione a chi le usa per un fine condiviso».

 

 

 

Concetto condivisibile rigo per rigo. Al quale, però, si aggiunge il vero dilemma: come detto, può una docente a cui è affidato il futuro di una generazione già culturalmente fragile, esprimere idee così eversive, già combattute dallo Stato con enormi «tributi di sangue»? Perché l’Università La Sapienza – dove gli amici di Balzerani uccisero Bachelet nell’80 - dopo aver avviato “un iter di valutazione” e aver informato il ministro, non si dichiara parte moralmente lesa e, perlomeno, non sospende la prof? La sospensione mi pare il minimo sindacale.

Nel 2007 il sottoscritto scrisse un libro (Terrorismo, l’altra storia con Raffaello Canteri, Aliberti) fatto di decine di interviste ai parenti delle vittime del terrorismo rosso, molte delle quali non hanno mai ottenuto giustizia. Il solo pensiero che la Di Cesare tenti di spettacolarizzare la sua già imbarazzante posizione invocando un «pubblico dibattito» sa di blasfemia istituzionale. La docente non ha ancora capito quale sia, oggi, il milieu storico. O forse, prima delle elezioni, l’ha capito troppo... 

 

 

 

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