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Chiara Valerio e Repubblica, la violenza sulle donne è colpa di FdI

Giovanni Sallusti
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Chiara Valerio, scrittrice, curatrice editoriale e firma di Repubblica, è sostanzialmente una Paola Cortellesi che non ce l’ha fatta. Mentre quest’ultima col film «C’è ancora domani», seppur con qualche eccesso bozzettisco, ha immerso la sua denuncia del (fu) patriarcato italico in precise coordinate storiche, risalenti ormai a tre generazioni fa, per Valerio la cultura oppressiva maschile è qualcosa di aprioristico, che coincide più o meno con l’esser «conservatori», o di destra, comunque col non pensarla politicamente come lei.

 

FASCISMO ETERNO

E' una riedizione del «fascismo eterno» escogitato da Umberto Eco, stratagemma retorico per delegittimare alla radice chiunque non voti secondo i dettami dell’intellighenzia, nel frattempo involuta da rossa ad arcobaleno: voilà il patriarcato eterno, responsabile surrettizio dei “femminicidi”. Sì, questo neologismo che vorrebbe indicare una sorta di quota rosa dell’omicidio (atto che dovrebbe incarnare di per sé la gravità massima, a prescindere dal sesso della vittima) è la «parola dell’anno» secondo la Treccani, e Chiara Valerio ci ha scorto un’autostrada narrativa. Ha quindi vergato un editoriale su Repubblica che, citando come si conviene Michela Murgia, metteva nel mirino il più incallito femminicida contemporaneo. Come dite, l’ayatollah Khamenei, capo supremo di un regime che impicca le spose bambine refrattarie al proprio destino di schiavitù? Mavvà. Yahya Sinwar, leader delle squadracce di Hamas che, come documentato diffusamente dal New York Times, hanno scatenato la caccia più bestiale alla donna ebrea, praticando lo stupro e le sevizie di gruppo? Mannò, siete degli incorreggibili islamofobi, d’altronde leggete Libero.

 

 

 

IL PATRIARCA

Il patriarca di gran lunga più pericoloso oggi è lui, il «maschio bianco eterosessuale». Un «colpevole quasi perfetto», come l’ha definito il filosofo Pascal Bruckner, per tutte le Chiara Valerio d’Occidente, per tutte le talebane del femminismo in rotta con la propria civiltà, incidentalmente l’unica dove la donna è (diventata) individuo libero. Apprendiamo quindi che il femminicidio è «la pratica attraverso la quale il sistema che chiamiamo società civile punisce i deboli, gli irregolari, i non conformi». Con tanti saluti al principio (anche penale) di responsabilità individuale, il femminicidio diventa mattanza organizzata da quest’essere ontologicamente corrotto, il maschio bianco eterosessuale. Per cui le «vittime concrete» sono le don ne che «vengono uccise», ma le «vittime astratte» (nuova vetta della neolingua politicamente corretta, come se la tragedia dei cadaveri si potesse astrarre dalla corporeità straziata) «siamo noi», dice Chiara Valerio.

 

 

 

Teorema psichedelico che porta alla seguente conclusione: «Se Giulia Cecchettin è morta, tutte siamo a rischio e se siamo salve è per caso o per fortuna, per una serie ininterrotta di gesti riusciti». No, è perché non tutti i maschi bianchi eterosessuali sono Filippo Turretta, non c’è la paranoia quotidiana dell’omicida che si annida in ogni uomo, c’è la maledetta possibilità del male. Ma sono banalità, Valerio vola troppo alto, fino a scovare la responsabile ultima dei femminicidi di Stato, lei, femmina traditrice perché non talebana, Giorgia Meloni. «Quando ad Atreju ha detto che essere conservatori significa vivere di ciò che è eterno», e Chiara ha ancora l’aria terrorizzata, «l’eternità non ha rassicurato e la persistenza in ciò che si è mi ha raggelato». “Perché”, a parte l’italiano pseudocolto e molto zoppicante, «in quelle eternità e persistenza affonda la radice di violenza per cui il femminicidio è prassi».

 

 

 

FEMMINICIDI

Cioè: chiunque riconosca qualche valore sottratto alla macchina distruttrice del tempo (magari la dignità della persona e la libertà inalienabile che hanno permesso alle donne di emanciparsi nell’Occidente cristiano e laico) è ipso facto complice dei femminicidi. Non importa cosa vuoi conservare, se sei conservatore vali a prescindere moralmente quanto Filippo Turretta. E' la mostrificazione finale dell’avversario politico. Che poi è l’unica abitudine che si è conservata in Italia negli ultimi decenni.

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