Francesca Albanese, un libro per criminalizzare Israele: apartheid e pulizia etnica, un altro scandalo
Il primo j’accuse Francesca Albanese nel suo libro lo fa contro se stessa. Quando nelle primissime pagine spiega, quasi a sua discolpa, che l’intento iniziale del volume non era quello di essere un «instant» ma, visti i fatti del 7 ottobre quando la stesura era già in cantiere, lo è diventato.
Non proprio carinissima come giustificazione. Perché il suo J’accuse (Rcs, 176 pp, euro 16), stornato da introduzione, postfazione e dalle domande poste dal giornalista Christian D’Elia, è un condensato di un centinaio di pagine appena su una faccenda a dir poco complessa come il conflitto israelo-palestinese.
Da una Relatrice Speciale dell’Onu sui territori palestinesi occupati, e dunque una funzionaria delle Nazioni Unite, in particolare dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, da diversi anni impegnata nella stesura di rapporti e dossier (sempre contestati da Israele) dalla Palestina era forse lecito attendersi qualcosa in più. Ma lo schema dell’istant book funziona, specie ora che dopo due mesi e mezzo di offensiva israeliana nella Striscia di Gaza l’opinione pubblica, con annessi scenari scioccanti post-bombardamenti, è facilmente portata a puntare il dito contro il governo di Tel Aviv.
Il volume, in sostanza, spara sulla Croce Rossa e per farlo non necessita di particolari argomentazioni.
Albanese fa ricondurre la causa di tutti i mali nella disputa all’esistenza degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, fondati dopo il 1967 e aumentati nel corso dei decenni.
Da qui, nonostante i distinguo d’ordinanza e la dissociazione dalla giustificazione degli attentati da parte di Hamas, si snocciolano tutta una serie di discorsi volti a criminalizzare Israele e la sua condotta politica ai danni dei palestinesi.
A SENSO UNICO
Il libro edito da Nel libro si parla apertamente di “apartheid”, di “pulizia etnica”, di “repressione”, di “crimini di guerra” commessi dagli israeliani e si definisce l’offensiva attuale una «ripetizione della Nakba», l’esodo di massa di oltre 700mila palestinesi successivo alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Per gli autori il concetto stesso di terrorismo palestinese è artificiale ed è nato per soppiantare la «lotta per l’autodeterminazione e la resistenza contro l’oppressione»: «Non sorprende che le autorità israeliane, analogamente ad altri regimi autoritari, debbano continuare a oscurare la verità, mettendo a tacere chi la racconta, come i giornalisti e i difensori dei diritti umani».
Il problema della vena instant dei libri è che, per uscire in fretta e vendere più possibile sfruttando l'hype mediatico, bisogna banalizzare tutto. Così, anche alcuni dei punti più delicati e controversi di questa contesa, comprese le colonie israeliane, finiscono per essere usati per impietosire più possibile i lettori (il richiamo alla “condizione dei bambini palestinesi” è continuo e costante) e l’obiettivo dialettico diventa equiparare Hamas ed Israele: «I crimini di Hamas vanno puniti severamente, davanti a un tribunale indpendente, sia le uccisioni sommarie sia la presa di ostaggi nel contesto delle ostilità. I civili catturati da Rcs Hamas devono essere immediatamente rilasciati. Allo stesso modo, vanno chiarite le gravi responsabilità di Israele. Uccidere indiscriminatamente i civili durante azioni militari, senza tenere conto dei principi di distinzione, precauzione e proporzionalità, è anch’esso un crimine di guerra».
GIUSTIFICAZIONE
Anzi no, perché nelle varie citazioni si fa riferimento anche ad alcuni articoli della stampa internazionale che parlano di Hamas come «frutto avvelenato dell’occupazione». In sostanza, una giustificazione. Dalle pagine del libro J’accuse è impossibile rimuovere il peccato originale insito nel curriculum vitae dell’autrice, ossia quell’omissione scoperta da Unwatch del lavoro svolto da suo marito, Massimiliano Calì, per il ministero dell’economia dell’Autorità Nazionale Palestinese (lei si è difesa dicendo che l’incarico era pagato dall’Onu e non dal govenro palestinese). Albanese, come spesso accade a chi vive aree di crisi, si è fatta coinvolgere troppo, non è più super partes e cita solo ciò che fa comodo alla sua narrazione che, di base, rimane profondamente anti-israeliana.