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Giuseppe Vicenzi: "Volevo diventare il re dei biscotti e ci sono riuscito"

Alessandro Gonzato
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«Da ragazzino avevo un sogno: creare l’industria dei biscotti. Volevo costruire la fabbrica più buona del mondo, pasticcini su larga scala. Ce l’ho fatta. Pensi: ho iniziato a incartare biscotti a 5 anni. Non arrivavo neanche al tavolo. Mio papà, Angelo, mi faceva salire su una cassetta capovolta». I savoiardi escono in fila come soldatini. Giuseppe Vicenzi, 91 anni, giacca, maglioncino girocollo e cuffia igienica in testa, li osserva da pochi centimetri, dietro il vetro protettivo. È un generale severo ma orgoglioso delle truppe. «Vede, lì è dove li scartiamo se hanno difetti di forma o sono sottopeso: se alle persone diciamo che sono 100 grammi devono essere 100». Il rullo esclude una confezione, spinta da un marchingegno in un recipiente. Vicenzi la apre e assaggia: «Buoni così non ce ne sono. Provi...». Il savoiardo, oltre all’amaretto, è il biscotto della sua vita: «Alcuni lo facevano col 16% di uova. Io col 30: costa di più, ma vuol mettere la qualità? Sono stato io a convincere l’Associazione degli industriali dolciaria redigere un disciplinare che portasse la percentuale almeno al 26. È diventata legge dello Stato».

Sabato, 10 del mattino. Il Cavaliere del lavoro Vicenzi, presidente dell’omonimo impero - chiuderà l’anno con circa 160 milioni di fatturato - passa in rassegna le 7 linee di produzione dello stabilimento di San Giovanni Lupatoto, cuore dell’azienda alle porte di Verona. Saluta i dipendenti uno a uno. La Vicenzi Group ha altri tre stabilimenti: uno a Bovolone (sempre nel Veronese), poi Fiorenzuola d’Arda (nel Piacentino) e Nusco, in provincia di Avellino. Sull’edificio, mattoni rossi e tetto bianco, la scritta “Vicenzovo”. «La mia prima pubblicità sui cartelloni per strada è stata “O bevi l’uovo o mangi Vicenzovo”. La inventai io». In ufficio la segretaria ha preparato un piatto di bocconcini con farcitura di lamponi, Grisbì al cioccolato e sfogliatine. L’immagine di nonna Matilde, capostipite dei prodotti Vicenzi, è sulla confezione dei biscotti. Sotto il vetro che protegge la scrivania c’è ancora la carta con cui nonna, col nipotino Giuseppe, incartava gli amaretti.

 

 

 

È lì, Vicenzi, che inizia il sogno di una fabbrica tutta sua?
«Qualche anno dopo. Mio papà era pasticcere-artigiano, e da buteleto, da bambino, andavo in laboratorio a dare una mano. Mio fratello, Mario, era un grande sportivo. La mia passione è sempre stata il lavoro».

Però da presidente della squadra di basket di Verona lei ha vinto una coppa europea...
«La Coppa Korac. Che trionfo... Se vuole poi ne parliamo».

Certo. Torniamo al papà pasticcere.
«Voleva che lo seguissi. Io invece volevo diventare un industriale del biscotto. Ma allora in Italia di biscotti non se ne facevano, se non a mano».

E come ha cominciato?
«Un giorno papà mi portò alla Fiera di Milano, la prima dopo la guerra. Vidi un macchinario che poteva produrre un pasticcino. Gli inglesi lo riempivano con il salato. Il rappresentante guarda mio papà: “Perché non manda suo figlio a Londra? C’è una Fiera dove la esponiamo”. Fu un’esperienza a dir poco ardita».

Racconti.
«Viaggiai su un Dc-3, si sfiorava il Cervino. Non ero mai salito su un aereo. Mai andato all’estero. Non parlavo una parola di inglese. Solo il dialetto veronese».

E come ha fatto?
«Prima di atterrare ho conosciuto un triestino che mi ha fatto da interprete coi doganieri. “Quanti soldi hai?” mi chiedevano. Avevo poche banconote arrotolate nelle calze. A casa mi avevano detto: “Non portare troppi schèi che non ti fanno entrare in Inghilterra”. Gli inglesi avevano paura che uno andasse lì per rubargli il lavoro».

Ha comprato il macchinario?
«Sì, ma non era adatto al mio progetto. La svolta è arrivata con la stampatrice».

Cos’era?
«Aspetti. A scuola rendevo poco. Un giorno mamma mi fa: “Adesso vai a Milano da tua zia a imparare qualcosa”. Ero adolescente. Per qualche mese un ragioniere mi diede lezioni di partita doppia. Il 18 aprile ‘48, il giorno delle prime elezioni, mia zia mi riporta qui perché lei era residente a San Giovanni Lupatoto e doveva votare. Torno, e arriva mamma: “Va’ in laboratorio, va’ a vedere cos’ha fatto tua papà”. Mi trovo la stampatrice, una Melzi di seconda mano, veniva da un’aziendina di Rovigo. Potevo passare dal prodotto manuale a quello stampato dalla macchina, su larga scala».

Aveva convinto papà ad accettare la sua idea?
«Quasi. Volevo sfondare, ma in laboratorio c’era solo un forno, e a Natale dovevo smettere perché lui faceva nadalìn e pandori. Poi per pensare di produrre un biscotto su scala industriale serviva molta elettricità, e dopo la guerra non ce n’era. Sarebbe servita una cabina elettrica, che però costava più del forno. Una soluzione poteva essere quella del forno a vapore. Ma anche lì andò male».

Perché?
«Arrivò un signore, un venditore nato, che ci convinse a comprarlo. Scoppiò quasi subito. Per fortuna successe nella pausa di mezzogiorno. Io ero l’addetto al forno, dovevo caricarlo di carbone. Qualche minuto prima o dopo e mi avrebbe sfigurato. Per fare le cose seriamente bisognava uscire da quel laboratorio.
Mio zio, il fratello di mia mamma, aveva tre pastifici, e uno aveva un bel terreno attorno. Papà mi aiutò a costruire un piccolo capannone. Potevo installare un forno elettrico, la cabina c’era».

Il primo biscotto prodotto?
«Biscotti secchi. Gli Oswego. Venivamo dalla fame: prima si mangiava la polenta. Poi il pane. Dopo un po’ i biscotti, ma erano per pochi. La vera intuizione, un rischio enorme, fu un’altra».

Quale?
«Mi sono detto: “O ti specializzi in un solo prodotto e diventi il numero uno, o smetti”».

Non smise.
«Feci una pazzia».

Racconti...
«Restituii un assegno a un tale Boschetti, di Bergamo, che mi pagava i biscotti in anticipo. Ricordo mio fratello: “Bepi, te si mato!”. Ma io ero convinto: nel ‘52-’53 cominciava ad esserci un certo fervore e i biscotti cominciavano a farli in tanti, perfino i farmacisti. Dovevo differenziarmi. Dalla sera alla mattina mi dedicai solo agli amaretti».

Un passo indietro: com’è nato il Savoiardo Vicenzovo?
«Da un macchinario comprato in Belgio. È così che siamo diventati leader del savoiardo. La stessa cosa l’ho fatta con la pasta sfoglia».

Altro macchinario in Belgio?
«No, in Giappone. Loro lo usavano per un prodotto a base di crema di fagioli. Nonna faceva la pasta sfoglia con 8-10 pieghe. Siamo arrivati a 192. Assaggi quel bocconcino lì: lo sente quanto è leggero?».

L’amaretto.
«Introdussi il turno di notte: amaretti 24 ore su 24. Il laboratorio iniziava a diventare piccolo. Nel ’70 abbiamo costruito questo stabilimento».

Quanti amaretti sfornate?
«Tre milioni al giorno e hanno una quantità di mandorle d’albicocca del 20%, superiore a quanto prevede il disciplinare. Anche in questo caso mi sono impuntato con l’Associazione dei dolciari».

Nel 2005 altra sfida: Vicenzi rileva la linea forno Parmalat.
«I due marchi maggiori: Grisbì e Mr.Day. Altra impresa ardita: in una notte sono passato da 200 a 600 dipendenti. Mi tremavano i polsi. Ho temuto di non farcela, ma i conti sono tornati».

Dicevamo del basket...
«Che sport avvincente! E sa, io non ne capivo niente. Iniziai dando una mano a una squadretta. Misero il nome Vicenzi sulle maglie. Volevo diventare il numero uno dei biscotti, quindi o si facevano le cose per bene o niente. “Mario”, dissi a mio fratello. “Tu ti occuperai dei giocatori”. Siamo arrivati in A1. Poi ho ingaggiato un general manager, Andrea Fadini, grande professionista e grande amico».

Nel ’98 la Coppa Korac.
«A Belgrado. Ma abbiamo vinto anche una Supercoppa e una Coppa Italia. Nessuno a Verona, in campo internazionale, è arrivato così in alto». Suona il telefono. È Beatrice, una delle tre figlie: «Tra poco arrivo, tranquilla». La aspettano per pranzo? «Sì ma non si preoccupi: anche se ho 91 anni prima dell’una e mezza non stacco mai». 

 

 

 

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