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Bruno Vespa: gli orrori di Tito e i profughi istriani, quel pezzo d'Italia tradito e perduto

Bruno Vespa
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Esce oggi il libro di Bruno Vespa, Il rancore e la speranza. Ritratto di una nazione dal dopoguerra a Giorgia Meloni, in un mondo macchiato di sangue. Anticipiamo un brano dal capitolo VII («Quel lembo d’Italia tradito e perduto») che parla del dramma dei profughi giuliano-dalmati.

«Un inevitabile fatto storico». Così Luigi Longo, numero due di Palmiro Togliatti e capo dell’ala rivoluzionaria del Pci, definì l’annessione di Trieste e del litorale alla Slovenia. Il Partito comunista triestino aveva rivolto al Cln una proposta indecente: ammettere nel Comitato di liberazione italiano un rappresentante del Partito comunista sloveno e stabilire una volta per tutte che la popolazione giuliana (quindi anche gli italiani) desiderava unirsi alla Iugoslavia del maresciallo Tito. Josip Broz (nome di battaglia «Tito») è una figura leggendaria, leader dalla nascita alla morte. Uno dei quindici figli di una famiglia cattolica sloveno-croata, senza sostanziale educazione scolastica, è stato sempre il primo in tutto ciò che ha intrapreso: in guerra, in fabbrica, nel sindacato, in politica. Tito ha fatto di tutto, persino lo schermidore di successo e il pilota collaudatore di automobili Daimler. Quando guidò la Resistenza contro i tedeschi e gli italiani, Hermann Göring lo ammirò per l’abilità (e la fortuna) con cui sfuggì ripetutamente alla cattura e all’eliminazione fisica. Gli Alleati lo riconobbero come partner importante nella lotta al nazifascismo e, soprattutto gli inglesi, gli diedero un sostegno importante anche nelle sue richieste di annessione dei territori italiani. Fu leader anche nella spietatezza, e noi italiani ne abbiamo fatto le spese.

 

 

Ma torniamo al Pci. La proposta dei comunisti giuliani non poteva essere accettata dal Cln e non lo fu. Seminò anzi un certo scompiglio nel Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, anche perché Longo - al di là dell’intenzione di cedere Trieste alla Iugoslavia -inquadrò i partigiani giuliani nelle fila e agli ordini di quelli titini. Soltanto con l’ingresso al governo, i comunisti si convinsero che Trieste sarebbe dovuta tornare all’Italia, anche se - come vedremo - Togliatti l’avrebbe volentieri barattata con Gorizia. Gli italiani si accorsero subito di quel che avrebbe significato stare sotto Tito. Dopo l’8 settembre, l’esercito italiano si sbandò fino a dissolversi, mentre quello titino era pronto a prenderne il posto.  Lo storico fascista istriano Luigi Papo ritiene che il Maresciallo fosse informato in anticipo dell’armistizio, perché l’occupazione dell’Istria da parte dei comunisti fu istantanea (Albo d’oro). I tedeschi resistettero soltanto a Fiume e a Pola, mentre Tito elevava la città di Pisino a capoluogo dell’Istria formando immediatamente i tribunali del Popolo per gli sbrigativi processi fantoccio che avviarono la pulizia etnica degli italiani. 

 

Gli omicidi di Stato non si limitarono ai rappresentanti del fascismo, ma vollero eliminare in radice qualunque funzione amministrativa e sociale che ricordasse l’Italia. Le divise, innanzitutto: fossero quelle di un carabiniere, di una guardia municipale e forestale, andavano eliminate insieme con chi le indossava. I proprietari terrieri venivano uccisi secondo il costume che abbiamo visto in voga presso i comunisti emiliani. Ma con loro anche l’ufficiale di posta e il farmacista, l’insegnante e il bancario, l’ostetrica e soprattutto il povero messo comunale, impopolare perché recapitava obblighi fiscali e comunque era portatore spesso di notizie sgradevoli. Raramente si trattava di omicidi individuali: come ci hanno raccontato Fulvio Costa e Annamaria De Savorgnani, nelle zone interne le vittime venivano messe in fila e gettate nelle foibe, in quelle marittime venivano annegate. Il giornalista triestino Fulvio Molinari ha raccontato in Istria contesa la storia delle tre sorelle Ma torniamo al Pci. La proposta dei comunisti giuliani non poteva essere accettata dal Cln e non lo fu.

Seminò anzi un certo scompiglio nel Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, anche perché Longo - al di là dell’intenzione di cedere Trieste alla Iugoslavia- inquadrò i partigiani giuliani nelle fila e agli ordini di quelli titini. Soltanto con l’ingresso al governo, i comunisti si convinsero che Trieste sarebbe dovuta tornare all’Italia, anche se - come vedremo- Togliatti l’avrebbe volentieri barattata con Gorizia. Gli italiani si accorsero subito di quel che avrebbe significato stare sotto Tito.

Dopo l’8 settembre, l’esercito italiano si sbandò fino Radecchi: Albina (21 anni, incinta), Caterina (19) e Fosca (17). Sequestrate dai partigiani comunisti, cucinarono, fecero le sguattere per un po’ in una cucina da campo e venivano continuamente violentate. Poi scomparvero, scaraventate nella foiba di Terli. Un altro giornalista, Edoardo Pittalis, sostiene in Il sangue di tutti che due delle tre ragazze furono gettate vive nella foiba.

Durante la stesura di Vincitori e vinti, mi colpì una lapide all’ingresso del palazzo comunale di Gorizia: «Il Municipio reverente ricorda i dipendenti scomparsi nel nome dell’Italia». Vi erano scolpiti 23 nomi. Tre erano di caduti in cinque anni durante la seconda guerra mondiale, venti prelevati nel maggio 1945 dai partigiani titini e mai più tornati a casa. Erano quattro applicati negli uffici comunali goriziani, sei (di cui cinque donne) aiuto applicati, tre vigili urbani, un aggiunto di ragioneria, un aggiunto tecnico, un segretario aggiunto, un capo divisione, un segretario capo, un messo usciere e l’ufficiale sanitario. L’intera burocrazia comunale. Il 16 settembre 1967, ventesimo anniversario della restituzione di Gorizia all’Italia, il sindaco Michele Martina disse: «I quaranta giorni dell’occupazione iugoslava nel 1945 furono un momento di illegale, assurda repressione, nata dall’odio, dal disordine politico, da un desiderio di giustizia sommaria contro una popolazione spesso colpevole solo di appartenere a una nazione, a una città».

L’aspetto più drammatico fu la contrapposizione tra partigiani italiani comunisti e anticomunisti. I comunisti giuliani pensavano che Togliatti li avrebbe tenuti per sempre sotto l’ala protettiva di Stalin ed erano subalterni, per dirla con Crainz, al desiderio di Tito non solo di annettersi l’intera Venezia Giulia, ma anche di fare piazza pulita di tutto quanto ci fosse di non comunista.

(«Uccideremo e deporteremo tutti i borghesi ... Compagni, dobbiamo vivere per distruggere: sulla distruzione completa del passato ricostruiremo la nuova Italia.») Alla fine del 1944 Togliatti scrisse personalmente l’ordine del giorno delle brigate comuniste: «I partigiani italiani, riuniti il 7 novembre in occasione dell’anniversario della Grande Rivoluzione, accettano entusiasticamente di dipendere operativamente dal IX Corpus sloveno, consapevoli che ciò potrà rafforzare la lotta contro i nazifascisti, accelerare la liberazione del paese e instaurare anche in Italia, come già in Iugoslavia, il potere del popolo».

E aggiunse che «i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono in nome dell’imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli.

 


L’ISOLA VERDE
Non c’è il nome della brigata Osoppo, ma l’identikit è perfetto. La brigata Osoppo-Friuli era stata fondata la vigilia di Natale 1943 nella sede del seminario vescovile di Udine ed era formata da elementi cattolici, laici e socialisti, che entrarono presto in conflitto con i partigiani comunisti italiani e sloveni. Al comando c’era Francesco De Gregori, nome di battaglia «Bolla», che, per dirla con Giorgio Bocca (Storia dell’Italia partigiana), aveva creato un’isola «verde» (dal colore del fazzoletto che i suoi membri portavano al collo) nel mare «rosso» dei partigiani comunisti. Alla Osoppo fu chiesto di entrare a far parte del IX Corpus sloveno, come avevano fatto i partigiani comunisti italiani, ma gli osovani rifiutarono.

Mario Toffanin, detto «Giacca», capo del commando comunista che avrebbe compiuto l’azione contro la Osoppo, confermò il 1° febbraio 1970 al ricercatore friulano Marco Cesselli di aver ricevuto da Alfio Tambosso, vicesegretario del Pci di Udine, l’ordine del Comando generale di eliminare il gruppo dirigente della Osoppo. Il 7 febbraio 1945 un centinaio di gappisti agli ordini di Giacca raggiunse la Osoppo a Porzus, piccola località vicino Attimis, nell’Udinese, dov’erano riuniti 22 osovani. Toffanin uccise subito De Gregori, un altro osovano ed Elda Turchetti, una ragazza considerata un’ex spia e poi aggregatasi al gruppo. Altri 14 partigiani «verdi» furono prelevati e uccisi nei giorni seguenti.

Due osovani si salvarono passando con i comunisti e furono poi importanti testi d’accusa nei processi contro la banda di partigiani comunisti. Toffanin e altri gappisti furono condannati inutilmente all’ergastolo: erano già scappati in Iugoslavia e sarebbero tornati liberi grazie all’amnistia Togliatti. Toffanin fu poi graziato da Sandro Pertini nel 1978.

Commenta Ernesto Galli della Loggia in La morte della patria: «Fu lì, in quelle terre e in quella vicenda, che per la prima volta divenne... chiaro alle forze dell’antifascismo che nel campo del vincitore esistevano due progetti, diversi e contrapposti, riguardo all’Italia, dal momento che in realtà il vincitore non era uno, ma ne comprendeva almeno due, e questi due, gli “occidentali” e gli “orientali”, obbedivano a visioni del mondo incompatibili». In questo filone va inquadrata anche la morte del capitano dei carabinieri Filippo Casini, 30 anni, genovese, comandante della compagnia di Pola. Nel luglio 1944, pur non essendo comunista, ritenne utile unirsi ai partigiani iugoslavi per combattere i nazifascisti, imitato da 69 carabinieri del suo comando. Ma, come sarebbe accaduto a De Gregori, è difficile per un non comunista obbedire a ordini non condivisibili. Deferito al solito, fantomatico «tribunale del popolo» insieme alla moglie Luciana Alfì (25 anni), che aveva voluto seguirlo, furono condannati a morte e fucilati il 14 agosto 1944. Nella sua rubrica online «100inWeb», il giornalista Vito Barresi ha sostenuto che furono gettati nella foiba di Bainsizza del Carso insieme alla loro figlia di pochi mesi. Il gruppo dei carabinieri comandati da Casini fu disperso e non si ha notizia di quale fine abbiano fatto i singoli elementi. Al capitano Casini sarà conferita la medaglia d’argento al valor militare.

 

 

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