Addio a Sergio Staino un comunista perbene
Gigante della satira, coscienza critica della sinistra, direttore de “l'Unità”: a 83 anni scompare un «nemico» straordinario. Amava il traffico delle idee, al punto da sparare sui giudici, rivalutare Berlusconi e scrivere, da ateo, su “Avvenire”
Sergio Staino così piantato sul bastone, con lo sguardo spento e il sorriso acceso, e con il vezzo di osservare il mondo oltre alla sua irreparabile cecità, evocava un J.L. Borges con la barba.
«Non hai torto», mi rispondeva lui, divertito «ormai la luce per me è uno spiraglio: m’immagino la vignetta, in testa butto giù uno schizzo a memoria». Sicché Sergio, detto questo, piegava l’occhio a goniometro sul foglio, e passava l’abbozzo al figlio Michele, «conosce il mio stile e completa l’opera. Come per Borges, l’illuminazione arriva da dentro...». Con Sergio Staino, morto a 83 anni dopo lunga malattia non se ne va soltanto un amico, un grande giornalista e un gigante della satira, ma pure il lato più nobile della coscienza della nazione. Mentre scrivo ho un groppo in gola: Staino, come il mai troppo rimpianto Angese – l’uno un comunista perbene, l’altro un anarcoide invincibile - era l’esempio vivente che le idee possono liberamente circolare oltre le ideologie.
TRA VIGNETTE E GIORNALI Staino era il suo Bobo. E Bobo era la sinistra onesta e operosa che faceva satira su sé stesso attraverso quel suo piccolo eroe, il il marxista leninista con gli occhiali «metà Umberto Eco e metà specchio di se stesso», Che, a sua volta , vantava suo coté di moglie femminista, figlia alla Mafalda e amici di cellula (Molotov fu il simbolo dei consigli di fabbrica immersi nel sovietismo, oggi somiglia spaventosamente a Maurizio Landini). Staino era pure un cronista sopraffino. Che aveva salito - pur da eretico - la scala evolutiva del partito fino a diventare direttore prima di Tango supplemento dell’Unità e poi dello stesso giornale fondato da Antonio Gramsci.
Due righe di biografia sono utili per inquadrare il personaggio. Nato e cresciuto a Piancastagnaio, in provincia di Siena ma oramai fiorentino d’adozione, Staino si era laureato in Architettura e aveva insegnato educazione tecnica nei licei della Toscana prima di dedicarsi al mondo dei fumetti e del giornalismo. Il suo Bobo, invece, esordì nel 1979 su Linus, mentre sempre negli anni ’80 Staino collaborava con Messaggero e Unità, dirigeva, appunto Tango - poi diventato Cuore diretto da Michele Serra - che aveva fondato nel 1986; e ne aveva fatto un seguito, l’anno successivo, in tv con Teletango su Rai3. Sempre per la Rai, aveva realizzato Cielito lindo, varietà condotto da Claudio Bisio. E negli anni erano continuate le tante collaborazioni con quotidiani e tv, fino a quando, dopo la chiusura dell’Unità, Bobo si trasferì a la Stampa mentre il suo autore pubblicava anche su Tiscali Notizie e il Riformista. Ma Staino fu anche regista cinematografico, direttore di teatro, militante di mille diritti, presidente del Club Tenco.
Forniva agli amici riflessioni amare sulle storture della politica, da e contro la sinistra stessa. Per esempio condannò le monetine lanciate a Craxi all’Hotel Raphael. E riteneva e che fosse nella natura di Renzi «ricattare tutti col suo 3%» ; e che «se all’orizzonte apparisse uno Zaia, democratico di destra, non mi suiciderei. Si chiama democrazia dell’alternanza». Brillava, Staino, per un coraggio da leoni e un’eversione di buonsenso, testimoniate in un libro, Quell’idiota di Bobo (di Gamba e Feo, La Nave di Teseo), perla del disincanto della sinistra.
Mi riferì, perfino, quasi con ingenuità, che «Berlusconi almeno il senso dello Stato ce l’ha, è nel Ppe, ha dei valori. E certamente rispetto ai 5 Stelle è un gigante. E forse tutti abbiamo sbagliato nell’attaccarlo sempre su questioni personali, extrapolitiche, abbiamo lasciato che la magistratura facesse il lavoro sporco per noi e la scorciatoia ha prodotto danni soprattutto a sinistra». E quando me lo confidò scoppiò un casino, e i duri e puri non potendo lapidarlo gli diedero del vecchio rincoglionito.
Sergio guardava e passava. E, nel frattempo, sperimentava. Disegnò, da ateo impenitente ma fan sfegatato di Papa Francesco, per l’Avvenire di Marco Tarquinio la vita di Jesus, il primo vero socialista (con Bobo nei panni del Giuseppe rompicoglioni).
E così commentava la scelta: «Ho solo scoperto, per dire, il valore assolutistico della famiglia alla Wojtyla (ho due figli, tre nipoti, sempre la stessa moglie da 40 anni), pur credendo nel sogno utopistico del ’68 dell’amore libero». I lettori del quotidiano dei vescovi si divisero tra quelli che, come padre Balducci, scrivevano: «Staino, tu sei il più cattolico di tutti» e chi affermava: «Vorrei vederla bruciare tra le fiamme dell’inferno assieme a quell’attoruncolo che siede sul soglio pontificio». Staino aveva la tendenza alla seduta d’autocoscienza collettiva. Credeva, come Anna Frank, nell’intima bontà dell’uomo.
Pur avendola frequentata, non era portato per la politica, perché l’«idea di non fottere gli altri, rimane la cosa principale in politica. Sono i cattivi politici che instillano il livore ad aver rovinato i compagni»; e lì citava i Prampolini, i Turati, i Macaluso che arrivò in Parlamento con la volontà di aiutare i braccianti siciliani.
NUME TUTELARE Il suo nume tutelare era il nonno contadino, anarchico, socialista, marxista poi cacciato dal Pci, che gli diceva «io voto comunista ma se vincono, io voto per quegli altri». Aveva una famiglia splendida, che era quella di Bobo e quelli di tutti gl’italiani disillusi di buona volontà. Pensava che la satira d’Italia si fosse declassata a barzelletta. Possedeva pensieri pirotecnici. Per lui davvero il giorno peggiore era quello senza sorriso. Mi mancherà, il mio Peppone, più di quanto lui stesso potesse immaginare...