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Vittorio Feltri: vi racconto il giornalismo del passato

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Vittorio Feltri
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Si dice e si constata che il giornalismo è in crisi. In effetti hanno chiuso anche molte edicole, perché vendevano poche copie, anche i settimanali zoppicano e molti di essi hanno cessato le pubblicazioni. Le cause di tutto ciò vanno ricercate nell’esplosione delle tecnologie, cellulari e tablet nonché computer classici che riportano ogni giorno, a ritmo incalzante, notizie e commenti. Cosicché è passato il concetto che ormai l’informazione sia gratuita, fruibile facilmente: basta pigiare un tasto per conoscere tutti gli accadimenti nazionali e internazionali. Noi scribacchini fatichiamo a tenere il ritmo dei social e spesso ne siamo tributari. C’è un altro aspetto da considerare per comprendere i motivi a causa dei quali la carta stampata sia molto meno appetibile rispetto a un passato non remoto. Dato che la vendita delle copie è calata parecchio negli ultimi tempi, le aziende incassano poco e sono costrette a ridurre gli stipendi dei lavoratori del settore. Automaticamente la professione del redattore e del cronista è diventata molto meno appetibile rispetto a una quindicina di anni orsono. Ovvio che anche la qualità degli addetti alla compilazione dei quotidiani sia calata vistosamente. I fuoriclasse della penna ormai sono molto rari. Quando io ero poco più di un ragazzo gli addetti alla redazione di articoli importanti erano numerosi e di alto profilo, e anche i direttori delle testate erano uomini esperti, dei veri e propri maestri.

UN MILIONE DI COPIE
La Notte, che usciva di pomeriggio, dove esordii, era guidata da Nino Nutrizio, un fenomeno che si era inventato una formula mutuata dai fogli inglesi. Alla sera era poca la gente che non avesse in tasca una copia del capolavoro. Quando fui assunto al Corriere di Informazione, il capo assoluto era Gino Palumbo, il quale quando prese in mano la Gazzetta dello Sport la portò a diffondere un milione di copie al dì, una mostruosità. Aun certo punto fui ingaggiato dal Corriere della Sera e, a parte l’ottimo stipendio, ebbi come direttore Piero Ottone, un grande.

Come colleghi trovai una squadra di gente eccelsa: Enzo Biagi, Eugenio Montale, Alberto Ronchey, Lietta Tornabuoni e altri personaggi di prima qualità. Ovviamente il livello del quotidiano più importante d’Italia era elevatissimo. E quelli che lo compravano erano una folla, oltre mezzo milione di persone. Tra l’altro sono persuaso, nella fretta di scrivere, di aver tralasciato molti altri nomi di prime firme, tipo Ettore Mo, Massimo Nava e Marzio Breda, personaggi di qualche valore.

NON ALLIEVO, MA PARENTE
Naturalmente le grandi firme si trascinavano appresso una quantità di allievi che imparavano il mestiere per imitazione e aumentavano il livello tecnico della pubblicazione facendola dominare sul mercato. Anche in altri giornali brillavano firme di notevole spessore: la Repubblica sfoggiava Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Gianni Brera, Natalia Aspesi per citarne alcune. Sia pure nella brevità di un articolo ho cercato di spiegare le ragioni per cui oggi il nostro mestiere è decaduto e non ce la fa a riemergere. La colpa non è dei giovani colleghi che si stanno cimentando nelle redazioni, ma del clima che si è creato nel nostro ambiente non solo per mancanza dei vecchi maestri, ma soprattutto per una sorta di decadenza nel mondo della stampa che ha ceduto le armi al web. Personalmente garantisco che utilizzerò gli ultimi anni nel tentativo di rianimare il mestiere a cui ho dedicato la vita. E che mi ha consentito di non sentirmi inutile. Se non riuscirò nel mio intento, mi limiterò a ricordare quello che mi diceva il più bravo di tutti, Indro Montanelli, il quale mi sussurrava che non ero un suo allievo ma, leggendomi, sentiva che ero un suo parente.

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