Vittorio Feltri smaschera Urbano Cairo: "Non spende ed è permaloso"
Ma sapete chi segnalò Belotti a Urbano Cairo? Io. Meglio, io e mio fratello Ariel, che di calcio è un infallibile esperto. Cairo capì al volo e non se lo fece ripetere due volte, gabbando così l’Atalanta, che inspiegabilmente lo aveva scartato quando giocava nell’AlbinoLeffe, ed era già un portento anche se tecnicamente ancora un filo grezzo, e persino l’Inter. Che lo visionò ma non ebbe fiducia, quando io lo consigliai alla società nerazzurra per sdebitarmi, perché tempo prima mi aveva risolto un piccolo infortunio: era trapelata la notizia che Figo aveva ammazzato un gatto e io, che guai a toccarmi i gatti, mi ero affrettato un po’ troppo ad arrabbiarmi per iscritto. La notizia era risultata non vera, il calciatore mi aveva querelato. Poi i dirigenti erano intervenuti e la questione si era chiusa con una stretta di mano. Belotti al tempo costava 500.000 euro, finì al Palermo.
Ho già scritto più volte, con ammirazione, che Urbano Cairo è uno che non sbaglia un colpo. Ha certamente avuto un maestro di una certa qualità, Silvio Berlusconi, alla cui corte è nato come pubblicitario, e poi ha seguito la traccia a gessetto dei suoi contorni, almeno fino a un certo punto (anche solo perché dall’ombra di Silvio è destinato a debordare, è alto 1,75, cioè non un gigante, ma comunque dieci centimetri in più): squadra di calcio, televisione (La7), editoria (Mondadori), settimanali e quotidiani (Corriere della Sera). Quando era studente alla Bocconi, chiamò Edilnord e chiese del Cavaliere. La segretaria non glielo passò. Richiamò e disse: «Ho due idee eccezionali, se non le posso spiegare al dottor Berlusconi lei rischia di fargli un danno». Ottenne un appuntamento con Dell’Utri e infine con Silvio. Le due idee erano «informazione» e «interconnessione». Berlusconi gli rispose che le aveva già avute lui, ma il ragazzo gli piacque e lo volle al suo fianco. Per tenerlo «basso», lo chiamava «aspirante assistente».
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COLLOQUI AL BAR - Quando nel 1995 fondò la Cairo Pubblicità, Urbano teneva i colloqui di lavoro al bar milanese Sant Ambroeus, poi mise un annuncio sul Corriere e fece dei biglietti da visita con un occhio come logo, in campo rosso: «Dagli occhi di una persona si capisce tutto». Berlusconi una volta aveva detto di lui a Montanelli che i suoi occhi emanavano bollicine di intelligenza, e Montanelli gli aveva risposto, sbagliando: «Se segue i tuoi ritmi, le bollicine scompariranno». Le bollicine, infatti, sono rimaste lì: avendo un talento proprio e un carattere praticamente opposto al suo maestro, per non dire delle inclinazioni politiche, Cairo almeno fino a ora ha evitato di compiere il passo estremo, quello di scendere in campo. Una volta si sbilanciò dicendo che avrebbe voluto rinascere Berlusconi, poi lo chiamarono Berluschino, cosa che gli dava molto fastidio: nel 2013, quando gli venne riformulata la domanda, ritrattò: «Vorrei rinascere Urbano Cairo». A Silvio e Veronica Lario, come dono di nozze, regalò un ritratto d’autore fatto dipingere per l’occasione, che raffigurava... lui.
Enrico Mentana ebbe un colpo di genio quando lo descrisse così, sulla linea politica del Tg che conduce su La7: «A Cairo importa della qualità delle trasmissioni e dei ricavi pubblicitari. Sulla politica, ha fatto sua la massima di Deng Xiaoping: non importa se il gatto è bianco o nero, basta che mangi il topo». Topo o no, La7, fra Gruber e Formigli, a me sembra una succursale di Botteghe Oscure...
Apparire gli piace poco, concede poche interviste, parla malvolentieri e per filosofia preferisce fare cose e lasciare che si annuncino da sé. E poi non è per niente prodigo, mentre, come si sa, la politica è un fondo perduto di uscite finanziarie. Attento anche alla cancelleria, ha lanciato un intero gruppo di settimanali popolari ed è riuscito nell’impresa di risanare il Corriere.
Quando, dopo aver acquistato La7 nel 2013, diede uno sguardo ai conti, gli prese un colpo vedendo che i taxi erano costati 500.000 euro nel solo anno precedente. L’emittente perdeva 100 milioni l’anno: «Mentre mi lavavo le mani in bagno ho pensato: ci ho messo un minuto, ho perso mille euro». Otto mesi dopo era in pareggio. Quando nel 2016 prese il controllo di RCS, avocò a sé tutte le deleghe: «Quando esce un euro, voglio sapere esattamente perché e come».
PARSIMONIOSO - Anche Massimo Ferrero, patron della Sampdoria, lo prese in giro per la parsimonia: «Ha i soldi di cioccolato, quando li mette in tasca poi si squagliano e spariscono». E perfino io ho fatto le spese della sua scaltrezza e attenzione alla moneta: nel 1994 lui era a capo della pubblicità Mondadori io dirigevo Il Giornale. Raddoppiai le vendite e, ovviamente, bussai a quattrini alla sua porta. Mi rispose: «Non ti do una lira». Litigammo ma non ci fu niente da fare. Cinque anni dopo fondai Libero, che non navigava in acque calme, e con Urbano avviai un negoziato per averlo in società, al termine del quale venne stabilito che io avrei sborsato 200 milioni di lire per rifinanziare l’attività. Lo feci, ma di quei soldi persi ogni traccia, e anche di lui. Da allora l’ho rincontrato varie volte, ci siamo parlati sempre amichevolmente, ma quei denari, che avrei voluto indietro, non erano mai con lui.
Va detto che Urbano Cairo ha anche dei difetti, dice di essere disordinato e impaziente, ma la verità è che certe cose se le può dire solo lui: è patologicamente permaloso, si arrabbia anche quando gli si dice che è spettinato. Una volta in un’intervista a ItaliaOggi dissi che non avrebbe fatto bene a scendere in politica, non solo per tutti i rischi, ma anche perché nessuno conosce il suo nome, e aggiunsi: mia moglie, per esempio, pensa che Cairo sia solo la capitale dell’Egitto. Non mi parlò più per molto tempo. Ogni grande uomo ha qualche debolezza: per esempio, Urbano ama essere ossequiato, quando passa bisogna usare il turibolo e aspergere d’incenso la via sulla quale cammina (ecco, adesso mi toglierà il saluto di nuovo).
Nel calcio, che è un altro pozzo senza fondo, è di un’astuzia ferina nel trasformare in virtù l’abissale distanza che corre fra la sua mano e la tasca che custodisce il portafogli. Quando il Toro, ha vissuto una delle sue crisi di gioco, culminate nel 3-3 contro il Verona dopo essere stato in vantaggio per 3 a 0, Cairo, sordo alle geremiadi dei tifosi, non ha avuto esitazioni a confermare Walter Mazzarri «almeno» fino al termine della stagione, quando sarà tempo istituzionale per trattare il rinnovo di contratto. L’esperienza del Milan con Giampaolo e il dopo-Giampaolo e del Napoli con Ancelotti e il dopo-Ancelotti insegna che non è affatto scontato che il nuovo sia meglio del vecchio. Inoltre, tenersi sui conti societari il peso di due allenatori invece di uno è spendere senza avere garanzie di ritorno, anche perché Mazzarri era stato per lungo tempo un suo pallino e il suo presidente non si sarebbe mai dato per vinto al primo scivolone. E poi, di più bravi (e a buon mercato) in giro non ce n’erano.
I due peggiori nemici di un buon amministratore sono la fretta e la paura, e Cairo, che è forse il miglior amministratore italiano, non è affetto da nessuno dei due. Quando, alla fine di un campionato, è uscito brevemente allo scoperto per rassicurare i tifosi scocciatori sulla riconferma di Belotti, ha aggiunto: «L’obiettivo è dare continuità ai risultati di quest’anno, credo sia giusto confermare tutta la squadra.
Anche il grande Torino è rimasto quasi immutato e questo la dice lunga su quanto sia importante la continuità quando hai giocatori forti». Sacrosanto: se non hai le forze per avere venti titolari, devi puntare sul gruppo.
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TORO E I GIOCATORI - Ci si mette di più e i cali sono più vistosi, ma è un fatto che da quando Cairo guida il Toro i granata non hanno più sofferto guardando il basso, ma solo guardando verso l’alto della classifica, che dista ancora un tantino così. Inoltre, a puntare sul gruppo si spende di meno, perché cambiare o comprare un giocatore è sempre un rischio, un calciatore può far bene da una parte e male da un’altra per una incalcolabile quantità di motivi e di sfumature. Sullo stesso Belotti, qualche tempo fa, ha detto: «È un grande fenomeno del Torino, segna e fa segnare i compagni. Anzi,» ha poi aggiunto «lui e Zaza si passano persino troppi palloni, a volte è bene anche essere più egoisti», cioè passarsi troppo la palla non è economico, tirare e fare gol, sì.
Come calciatore, manco a dirlo, Urbano Cairo era un «veneziano», per sua stessa ammissione, un’ala destra che si teneva la palla allo spasimo, non la passava mai e dribblava tutto quello che aveva a tiro. Amava Claudio Sala e aveva una fervida ammirazione per Gianni Rivera, ma la passione per il Torino gli venne inoculata da sua mamma Maria Giulia. Cairo è così, punta sul rischio più calcolato e non lo fa vedere a nessuno, è paziente e accorto, quindi alla fine sembra un miracolista. Ma in realtà il talento che gli permette di sfruttare tutti gli altri talenti che ha è la freddezza, unita al senso pratico, forse dovuto a tutte le estati passate a raccogliere barbabietole con il nonno e lo zio: «Ho sempre sognato di prendere il Torino, ma non ho mai sognato di prendere il Real Madrid».
PUNTA SUI GIOVANI - Giocare d’anticipo, cioè puntare sui giovani, e non rincorrere il colpo di scena, sono le due chiavi filosofiche di Cairo, con buona pace della curva granata che, non essendo diversa da tutte le altre, vorrebbe vedere i suoi in testa alla classifica della A, almeno ai quarti in Champions e fare cinque gol a partita (purtroppo per loro una squadra che li fa c’è, non la nomino neppure, dico solo che non è di Milano, è nerazzurra e ho degli orgasmi sportivi ogni domenica).
Dunque, i nomi su cui il suo direttore sportivo Massimo Bava ha puntato gli occhi non sono da primo pagina, ma due classe 1999, Gianluca Scamacca, e Andrea Pinamonti che è del Genoa. Se ho visto giusto, per come lo conosco, Urbano Cairo scenderà in politica quando si ghiaccerà l’inferno. Il suo posto ideale, ovviamente, sarebbe il centro. È fiero nemico di Reddito di cittadinanza e Quota cento, perché considera, a ragione, che non si possa fondare la rinascita di un Paese sui sussidi e sul pensionamento delle persone. Ma ha visto nascere e finire nell’indifferenza gente ben più attrezzata di lui, come Stefano Parisi con Energie per l’Italia, Luca Cordero di Montezemolo con Italia Futura, Corrado Passera con Italia Unica, Flavio Briatore con quel suo Movimento del Fare.
È una strada lastricata di guai e nessun vantaggio, per non dire delle spese: incalcolabili, imprevedibili. Due parole, anzi tre, che Urbano Cairo (fidatevi di uno che ancora non ha elaborato il lutto per quei duecento testoni) non ha nel suo efficace, implacabile, trionfale vocabolario.