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Alain Elkann, lo sfondone: come ha deturpato l'Italiano

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Massimo Arcangeli
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Il «breve racconto d’estate» di Alain Elkann (padre di John, editore del quotidiano e presidente del gruppo Gedi), se fosse apparso in un’altra sezione di Repubblica, avrebbe forse suscitato ugualmente le rimostranze dei giornalisti della testata, per la «commistione editoriale» e la sfacciata ostentazione del proprio status sociale da parte dell’autore, ma non avrebbe prodotto il vespaio di polemiche di questi giorni. Soprattutto indigesta la “nobilitazione” del pezzo, uscito sulle pagine culturali (24 luglio) del giornale diretto da Maurizio Molinari e spacciato per esercizio letterario.

Fingiamo comunque che lo sia, provando però a invertire le parti nella pantomima inscenata su Elkann: valutiamo la sua cronachetta ferroviaria, con lo specillo del critico di lingua e di stile, come un testo narrativo prodotto da uno studente di 16 o 17 anni, più o meno l’età dei lanzichenecchi compagni dello “scrittore” nel tragitto da Roma a Foggia.
«Intanto il treno, era arrivato a Caserta». Un uso “creativo” della punteggiatura. «Alcuni avevano in testa il classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball di colori diversi, prevalentemente neri». Un costrutto malmesso: i colori sono quelli dei berretti dei giovani barbari discesi dal Norditalia, ma legano piuttosto con giocatori e visiere.

 

QUELLO O QUESTO?  - «Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica. Mentre facevo quello, i ragazzi parlavano ad alta voce come fossero i padroni del vagone». Il diario. Come se ne avesse parlato prima, e spunta invece dal nulla. Mentre facevo quello. Volevi forse dire questo? E nel mentre?
Non ti piaceva? «Pensavano ai fatti loro, parlavano forte, dicevano parolacce». Al lettore gliel’hai già detto delle parolacce («Parlavano di calcio, di giocatori, di partite, di squadre, usando parolacce e un linguaggio privo di inibizioni»), non potevi giocartele solo una volta?

Anche perché sono parte del «linguaggio privo di inibizioni» che finiamo per preferire al tuo superiore silenzio, durato per tutto il tempo del viaggio, e ci rende perfino simpatici gli incivili e sguaiati caciaroni seriali. Tu che prima ti senti come fossi «un altro mondo» e poche righe più avanti, sprovvisto di qualunque coscienza retorica dell’uso della ripetizione, dici di venire «da un altro mondo».

Potrei proseguire, sebbene sia difficile dire, del “caso Elkann”, se sia stato più imbarazzante: 1) l’attestato di letterarietà a uno dei più brutti, sciatti e sgangherati “racconti” brevi che abbia letto nell’ultimo anno; 2) il rifiuto di Molinari di pubblicare la nota con cui il Comitato di redazione del giornale (poi costretto a far uscire un comunicato sindacale) ha preso le distanze dal contenuto “classista” del pezzo, e il maldestro tentativo del direttore di reagire ad accuse e sberleffi con due pagine (26 luglio) affidate a tre articoli inutili o improbabili; 3) il panegirico della noterella di Elkann da parte di uno degli autori dei tre pezzi, Fabio Finotti, professore emerito all’università della Pennsylvania e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York.

 

Ha inanellato perle come queste: Elkann ha scritto un «bel racconto»; il protagonista «non è e non potrà mai essere il vero Alain Elkann»; il confronto è fra «due mondi diversi, e chi ha deciso di schierarsi col secondo, quello più giovane, ha fatto una scelta tra due classi non sociali ma intellettuali». Ma ecco il top di un lussureggiante strabismo interpretativo a trazione direttoriale: «Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono. Sembrano appagati di quel che sono, tanto da non vedere il mondo attorno che li circonda. Di fronte a loro c’è lo scrittore che li descrive. Il vero poveraccio sembra lui. Il suo vestito è “molto stazzonato di lino blu”».
 

DIFESA D’UFFICIO - Un “poveraccio” che dopo aver sottolineato come, a dispetto del caldo, non abbia rinunciato a indossare – proprio come segno di distinzione sociale – il suo abito di lino e la sua «camicia leggera», tira fuori il «Financial Times del weekend», il New York Times, il «supplemento culturale di Repubblica» e infine, immerso pure nella lettura in francese della Recherche di Proust, la sua stilografica. Finotti, il cui pezzo va ben oltre il valore d’accatto, di per sé già irritante, di una difesa d’ufficio, si chiede a un certo punto se la letteratura può ancora «dare scandalo» e «muovere le coscienze». La letteratura, con buona pace dei puritani del politicamente corretto, deve continuare a scuoterci e a scandalizzarci. Su questo tasto gli scrittori e i critici veri, e non i dilettanti alla Elkann o gli acquiescenti alla Finotti, devono battere fino all’estenuazione se vogliono sottrarre il senso stesso del loro lavoro a un destino che per qualcuno sarebbe già segnato, se vogliono provare a impedire all’arte letteraria di consegnarsi al suo boia – l’inarrestabile ondata di una devastante ipocrisia moralizzatrice – o di tagliarsi direttamente le vene. 

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