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La Russa, l'ossessione del "Fatto": finisce male, chi viene querelato

Annalisa Chirico
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La leader della sinistra Elly Schlein non ci crederà ma io resto sempre impressionata dalla disinvoltura con cui in Italia si getta la croce su questo o su quello. Ormai siamo al “reato di parentela”, che per fortuna non esiste. Stavolta tocca ai “La Russa”, il plurale è d’obbligo giacché una singola vicenda, specifica e circostanziata, è diventata il casus belli per scatenare una campagna denigratoria contro una famiglia intera. Il figlio, l’altro, Geronimo, la di loro madre, neanche a dirlo il di loro padre.
Se ti chiami La Russa, non hai scampo. È morto e sepolto il dovere di rispettare l’onorabilità delle persone, la loro reputazione, si sospende il principio di continenza che sempre dovrebbe ispirare la nostra parola e azione quando le parole e le azioni hanno un impatto sugli altri. Per Schlein è tutto molto «disgustoso», davvero disgustoso, desta disgusto insomma qualunque esternazione che Il cantautore non si riduca alla condanna preventiva di un ragazzo che meriterebbe almeno un processo, e soprattutto desta disgusto suo padre, campione della «cultura patriarcale e sessista della destra».

 


Ma che c’entrano destra e sinistra quando in ballo c’è un’inchiesta con un indagato (presunto innocente) e una famiglia, immaginiamo, travolta dal dolore? Il rispetto delle persone, ecco. Io, quando scrivo, uso responsabilità, o almeno ci provo, perché sono consapevole che se offendo o accuso ingiustamente qualcuno sarò chiamata a risponderne. Ciò non accade, per esempio, ai giornaloni che sparano in prima pagina una notizia palesemente falsa: “Negato il telefono di La Russa jr”, poi scavi e scopri che i fatti sono andati diversamente: il 21enne, indagato per violenza sessuale, ha prontamente consegnato il cellulare, sim inclusa, ma la procura non ha ritenuto di sequestrare la scheda (intestata allo studio legale associato tra i cui avvocati compare un parlamentare, il padre).
Al fratello Geronimo è capitato di essere bersaglio di una non brillantissima uscita di Roberto Vecchioni che a Firenze, intervistato da Andrea Scanzi, ha pensato (male) di tirar fuori una vecchia storia, anno 1997, di ragazzetti e feste casalinghe addebitando al povero Geronimo nientemeno che un furto di mutande. Il malcapitato si è detto «allibito» per la notizia riportata sul Fatto Quotidiano e ha dato mandato ai legali per difendere la propria onorabilità: non sono un ladro di mutande, ha detto. In effetti, per l’episodio, risalente a ventisei anni or sono, non è stato mai neanche imputato.

 

Ma i fatti contano poco: nel tiro al bersaglio, nel “dagli ai La Russa”, ciò che conta è il titolo ad effetto e il legame di parentela. Il presidente del Senato, del resto, è la vittima perfetta: orgogliosamente di destra, scilinguagnolo sciolto, allergia al politicamente corretto. Tanto basta, domando, per giustificare il “familiarmente scorretto”? Si può accettare, in uno stato di diritto, che il caso giudiziario di un singolo diventi il pretesto per imbastire una gogna mediatica contro una stirpe intera? Non è questione di destra e sinistra, dobbiamo fare pace con il fatto che anche i politici tengono famiglia: i parenti non vanno favoriti, certo, ma neanche penalizzati. La deriva forcaiola, che all’epoca non risparmiò neppure Beppe Grillo, non aiuta la ricerca (sacrosanta) della giustizia, i magistrati dovrebbero operare in un clima di serenità, tanto più in una storia complessa, dove c’è una vittima che si dichiara tale e c’è il dovere giudiziario di accertare fatti e responsabilità. Il reato di parentela non esiste, fino a prova contraria.

 

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