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Vittorio Feltri, il primo incontro con Montanelli: "Testa di ca***"

Vittorio Feltri
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Sabato è l’anniversario della morte di Indro Montanelli, deceduto a Milano il 22 luglio 2001, a 92 anni. Questo èil ricordo di Vittorio Feltri.

Era il 1984 e avevo da poco lasciato il «Corriere» per dirigere «Bergamo Oggi», quando ebbi a che fare per la prima volta con Indro Montanelli. Mi telefonò un caro amico, con cui avevo lavorato alla «Notte», Salvatore Scarpino, originario di Cosenza. «Vittorio, qui al “Giornale” stanno cercando un inviato. Se ti interessa ti segnalo» mi disse. «Certo che mi interessa» risposi con decisione: volevo tornare nella metropoli e alla stampa nazionale, mi ero già stufato di stare piantonato nella mia città natale, mi sentivo quasi tagliato fuori, quasi recluso. La pratica andò avanti e Montanelli, visionati i miei articoli e il mio curriculum, decise: «Questo mi piace! Lo prendo». A cambiare le carte al tavolo della vita mandando in fumo il mio passaggio al quotidiano diretto da Indro fu una questione sentimentale, non mia: il corrispondente da Parigi del «Giornale», Gabriele Canè, litigò con la compagna e abbandonò dalla sera alla mattina la capitale francese rientrando nel Bel Paese e assumendo il ruolo che sarebbe dovuto toccare a me. Sfumata questa occasione, ebbi modo di tornare al «Corriere» nel corso dello stesso anno, quando Piero Ostellino fu nominato direttore.

L’ostilità tra il quotidiano di via Solferino e quello di via Negri era ai massimi livelli. Nessuno dei miei colleghi coltivava buoni rapporti con Indro. Io fui l’unico ad avvicinarmi a lui grazie all’intermediazione del suo fidato Scarpino, il quale riuscì anche a farmi ottenere un’intervista. Montanelli non voleva parlare con quelli del «Corriere», eppure accettò di incontrare me. Il fatidico giorno mi recai in via Negri. Una volta giunto, la segretaria del direttore mi fece accomodare in una sala d’aspetto. L’attesa durò soltanto qualche minuto, non sarebbe stato nello stile di Montanelli usare scortesia nei confronti dei suoi ospiti. Mene stavo lì seduto dando un’occhiata ai giornali, quando udii una voce maschile che si rivolgeva a me con epiteti tutt’altro che garbati: «Testa di c**zo», «Faccia di m**da», «Ma vattene af***lo». Trasalii. «Iniziamo bene» pensai tra me e me. Mi guardai intorno per capire da chi provenissero quelle amene parole e mi accorsi della presenza tanto discreta quanto indelicata di un merlo indiano. Era stato lui a insultarmi, standosene beatamente appollaiato dentro la sua gabbia. Nessuno più di un uccello riesce a offendere con tanta nonchalance. Tirai un sospiro di sollievo e scoppiai in una risata.

 


Proprio in quel momento Montanelli aprì l’uscio del suo ufficio e ci guardammo negli occhi per la prima volta, in una situazione quasi comica. A ristabilire un clima di sobrietà fu Indro. «Vieni, accomodati» mi disse con un sorriso. Ci misi davvero grande cura e l’intervista venne proprio bene. Stabilimmo un minimo di feeling, così, ogni volta che quelli del «Corriere» volevano l’opinione del direttore del «Giornale», si rivolgevano a Feltri. Il rapporto tra me e Indro diventò più intenso quando questi in un articolo, scagliandosi contro Luigi Ciriaco De Mita, con il quale io avevo un buon rapporto, gli diede del padrino. Ciriaco lo querelò seduta stante e si andò in tribunale. In qualità di inviato del «Corriere» fui spedito a Monza per seguire la bagarre. Tenevo bordone a Montanelli. Anzi, direi che persino il pubblico ministero faceva il tifo per l’imputato. Montanelli, dal canto suo, era entusiasta del sostegno manifestatogli dal «Corriere».

INTERESSE SINCERO
Conclusosi il processo con una condanna simbolica a Indro, questi mi telefonò per ringraziarmi e invitarmi a pranzo. Ci incontrammo da soli alla Tavernetta, da Elio, in via Fatebenefratelli. Fui sommerso dalle domande, in pratica fu lui a intervistare me stavolta. Restai colpito dal sincero interessamento nei miei confronti. Indro aveva fame di sapere di me, della mia vita, della mia famiglia, di come avevo intrapreso la carriera giornalistica. Ero emozionato e felice. Ci furono altri pranzi, a cadenza regolare Indro mi chiamava e ci si vedeva.

Mangiava due fagioli alla toscana, due spaghetti. Le sue porzioni erano pediatriche. Mandava giù tutto con un paio di bicchieri di vino, rigorosamente Chianti, servito in un fiasco che teneva poggiato sul pavimento e non sul tavolo. Montanelli non era per nulla altezzoso, il suo spirito era semplice. Ed era un interlocutore divertente, diretto, delizioso, capace di mettere chiunque a proprio agio. All’inizio del 1990 assunsi la direzione del settimanale «L’Europeo». Volevo prendere come vice Scarpino, ma non avrei potuto portarlo via al «Giornale» senza confrontarmi con il suo direttore. Allora incontrai Indro, manifestandogli questo mio desiderio. Montanelli acconsentì e il giornalista cosentino, tanto stimato da Indro, passò all’«Europeo». Già dopo due anni iniziai ad avvertire il desiderio di cambiare, fui preso dalla mia frenesia. Avevo portato il settimanale da 78.000 a 130.000 copie, ora volevo nuove sfide. Puntualissima arrivò la proposta di dirigere «L’Indipendente», che versava in una grave crisi. Nel 1992 lo presi e lo rivoltai del tutto.

All’«Europeo» rimase Scarpino, che dopo qualche mese andò a lavorare come caporedattore al Tg4 con Emilio Fede. In quel periodo continuavo a sentire e a vedere ogni tanto Indro. Ricordo la sua Lancia Thema blu, con la quale dopo il nostro pranzo mi faceva accompagnare dall’autista ovunque avessi bisogno di recarmi. Non era una macchina di lusso, e appariva anche un po’ consumata. Montanelli non era uno che badava alle frivolezze. Tuttavia, curava con precisione il suo aspetto, era sempre vestito bene, un po’ britannico, indossava camicie a quadri, dolcevita, e zoppicava perché era stato colpito dalle Brigate Rosse alle gambe. La sua gentilezza era addirittura estrema. Ma io non sono gentile e con «L’Indipendente», che diventò in brevissimo tempo da malato terminale a quotidiano di successo, gli andai nel culo: da 15.000 copie lo portai oltre le 120.000, creando serie difficoltà alla concorrenza. Superai «il Giornale». Montanelli se ne infischiava delle vendite, ma stava attento. Nell’aprile ’93 ricevetti la chiamata di Silvio Berlusconi. Ancora non si parlava del lancio in politica e Forza Italia non esisteva. Dirigeva allora l’ufficio stampa dell’imprenditore un giornalista con cui avevo lavorato al «Corriere», Giovanni Belingardi, amico mio carissimo. Fu lui a contattarmi informandomi che Berlusconi desiderava incontrarmi. Non avevo motivo di rifiutare l’invito. Giovanni venne a prendermi in ufficio per portarmi ad Arcore. Mi lasciò davanti al cancello e andò via. «Il signore in questo momento si trova in giardino, sta accompagnando Gianni Agnelli all’elicottero. Se si incammina per questo vialetto, vi incrocerete» mi comunicò il maggiordomo appena varcata la soglia della residenza. E fu proprio lì che ci vedemmo per la prima volta, su quel vialetto.

 


LA CORTE DI SILVIO
L’imprenditore mi venne incontro e mi salutò in modo cordiale, quasi affettuoso. Era giovane, gentilissimo ed energico. Avevo davanti a me un uomo semplice. Non provavo soggezione. Non ho avuto alcuna palpitazione. Mi interessava capire soltanto cosa volesse dame. Durante il pranzo piovvero le proposte. Berlusconi mi chiese innanzitutto cosa ne pensassi di un mio passaggio al «Giornale» in qualità di direttore. Non nascosi di essere attratto da questa ipotesi, sostituire Montanelli mi attizzava. Ma aggiunsi anche che io stavo alla grande lì dove mi trovavo. «L’Indipendente» andava molto bene e le mie entrate erano soddisfacenti. Sottolineai, infine, che fintanto che Montanelli fosse stato alla guida del «Giornale» io non avrei mai osato scavalcarlo e che solo nel caso in cui Indro avesse deciso di abbandonare il timone per motivi suoi, io sarei stato interessato a un mio passaggio al quotidiano di via Negri. Berlusconi la prese bene. Non è un tipo che si scompone. Dopo il nostro primo incontro il futuro leader di Forza Italia mi chiamava spesso per farmi i complimenti per i miei titoli o i miei pezzi, mi diceva che il mio giornale gli piaceva molto. In occasione del Ferragosto di quello stesso anno, il ’93, fui invitato da Silvio a pranzo, sempre ad Arcore. «Mi trattengo a Milano per lavoro e sono da solo, porti anche sua moglie e i suoi figli», mi pregò l’imprenditore. Mi presentai lì non accompagnato. A tavola questa volta Berlusconi si fece più insistente.
«Venga da me, le affido la direzione di Canale 5», mi disse. Io non avevo mai fatto televisione, avevo alle spalle solamente qualche piccola esperienza in codesto ambito, sono un giornalista della carta.

Berlusconi mi fornì il nome e il numero di un suo amministratore, un certo ingegner Spingardi, augurandosi che potessimo raggiungere un accordo fissando un compenso. Insomma, l’uomo mi voleva a tutti i costi. Incontrai Spingardi, più per farlo contento che per negoziare, infatti la trattativa non andò in porto. Influì sull’esito infausto anche la reciproca antipatia tra me e questo amministratore. Nei mesi successivi la stampa ci diede dentro con la diatriba infocata tra Montanelli e Berlusconi. Il primo non accettava che il secondo avesse fondato un partito. Indro era incazzato nero, poiché aveva capito che il suo giornale sarebbe diventato un organo di partito. Si mormorava che Montanelli avesse intenzione di mollare la presa. Agli inizi di dicembre di quello stesso anno, Berlusconi mi telefonò per chiedermi un consiglio. «Non so a chi affidare il partito, che ne pensa di Mariotto Segni?» mi domandò. «Mi sembra flaccido» osservai. «E Mino Martinazzoli come lo vede?» proseguì. «Anche peggio. Mino, lumino cimiteriale, è una specie di agente mortuario» risposi. Berlusconi rideva e mi ascoltava.

NASCE FORZA ITALIA
A un certo punto incalzò: «Insomma, Feltri, lei chi metterebbe a capo di Forza Italia?». «Metterei Silvio Berlusconi. Perché, quando ero direttore dell’“Europeo” feci fare un sondaggio al fine di sapere quale fosse il cittadino più ammirato d’Italia e al primo posto risultò lei. Se decide di entrare in politica, il partito deve dirigerlo lei, altrimenti lasci perdere» conclusi. Sospetto di avere fornito a Forza Italia non solo il leader, ma persino il nome. Negli anni Ottanta io, Walter Zenga e Nicola Forcignanò conducevamo un programma televisivo che si chiamava «Forza Italia», trasmesso sull’emittente di Calisto Tanzi, Odeon TV. Berlusconi premeva e mi chiedeva in modo sempre più incalzante di andare al «Giornale». Ci fu un altro incontro, ancora una volta ad Arcore. «Ok, vengo al “Giornale”» dichiarai dopo estenuanti tentativi di convincimento. Le condizioni erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Montanelli stava andando via. Era deciso. «Quando Indro toglierà le tende, ammesso che ciò accada effettivamente, io accetterò di prenderne il posto. Di sicuro non verrò lì a dargli una gomitata» specificai.

E, in effetti, Montanelli, sicuramente messo a dura prova da un Berlusconi che voleva scaricarlo, abbandonò il quotidiano da lui stesso fondato. Dopo le sue dimissioni, il posto per pochi giorni restò vacante. Nel mentre prese avvio la trattativa riguardante la mia assunzione. All’«Indipendente» guadagnavo mezzo miliardo l’anno, ecco perché mi misi a ridere allorché i dirigenti del «Giornale», nel corso di un colloquio, mi offrirono 600 milioni. Li mandai a quel paese senza esitazioni. Già non ero molto eccitato al pensiero di lasciare un quotidiano che vendeva molte copie, inoltre mi veniva proposto di farlo per 100 milioni in più. «Se vi serve un cretino, ce ne sono in giro tanti. Se avete bisogno di un direttore, io sono ancora per poco disponibile» dissi rivolgendomi a tutti i presenti, incluso Paolo Berlusconi. Poi lasciai la stanza. Davanti all’ascensore fui recuperato e riportato dentro.

A quel punto mi offrirono 800 milioni e, per convincermi ad accettare, mi proposero un compenso anche per le copie vendute. Insomma, più avrei recuperato lettori più avrei incrementato i miei guadagni. Una bella sfida, che colsi al volo. Già dopo pochi giorni vendevo 30.000 copie in più. I pranzi con Montanelli si interruppero. Non sentivo di averlo usurpato. Non appena presi la direzione del «Giornale» uscì il mio primo articolo, quello di saluto ai lettori. Il giorno successivo, tra le 10.30 e le 11, ricevetti la telefonata di Indro. Parlava in modo pacato e sicuro, come sempre. Nella sua intonazione nessun accenno di rancore o di rabbia: «Vittorio, ti faccio gli auguri ora che sei diventato il mio successore, ho letto il tuo articolo di fondo e devo dire che mi è molto piaciuto. Mi secca solo di non averlo firmato io». Restai sbalordito ancora una volta dalla sua gentilezza. Montanelli era un vero signore. Nelle sue parole percepivo affetto. Forse voleva togliermi dall’imbarazzo. Quanta delicatezza! «Il Giornale» andava abbastanza bene quando esordì il nuovo quotidiano fondato da Montanelli, «la Voce», che vendette da subito la bellezza di 500.000 copie. Tuttavia, io ero tranquillo. Avevo studiato bene quel giornale e lo vedevo brutto. Non avevo nessun timore. Sapevo che «la Voce» sarebbe stata una meteora. Scintillante all’inizio e dalla vita breve. Infatti, durò solamente un anno. Da 115.000 copie a gennaio ’94, «il Giornale» superò le 200.000 a fine luglio. Indro mi portò via una cinquantina di giornalisti, tra cui Beppe Severgnini - sebbene di lui mi dicesse «Beppe è soltanto cipria»-, Marco Travaglio, Mario Cervi e tanti altri.

Dopo un anno dalla sua uscita, «la Voce» vendeva 30 o 40.000 copie. Il giorno in cui chiuse io mi trovavo a Santa Margherita Ligure. Appresa la notizia, feci fare 10 righe sulla prima pagina, una colonna, per rispetto, al fine di informare i lettori che il giornale di Indro aveva terminato le pubblicazioni. Neanche una parola di commento. Non avrebbe avuto senso infierire.


«UN FIGLIO DROGATO»
Rientrato a Milano, il giorno seguente, mi chiamò Montanelli per chiedermi di vederci. Ci incontrammo in un ristorante di corso Venezia, Santini. Mi appariva quasi stanco, ma sereno. «Ho dovuto chiudere il giornale. Aiutami, vorrei che tu riprendessi con te queste persone», e mi fece il nome di alcuni giornalisti. «Se posso, Indro, lo faccio più che volentieri» risposi. E, in effetti, ne feci assumere qualcuno. Mi segnalò Cervi, che reintegrai subito. Iniziò così una nuova fase di frequentazione tra me e Montanelli, che tornò al «Corriere» come editorialista.

Non seppi mai cosa Indro pensasse di me dalle sue labbra. Lo appresi leggendo «Panorama», dove io peraltro in quel periodo curavo una rubrica di opinione e rispondevo ai lettori. Intervistato dal settimanale, al fondatore del giornale che io dirigevo fu chiesto se fosse vero ciò che si diceva, ossia che io fossi un suo allievo. «Questo non lo posso dire, ma da come scrive sento che è un mio parente» fu la sua risposta. E poi: «Del “Giornale” cosa ne pensa?». «È come avere un figlio drogato» dichiarò gelido e ironico Indro. Montanelli mi accusò di cavalcare il peggio della borghesia italiana, cosa che aveva fatto pure lui. Ciò che gli era sfuggito era semplicemente il fatto che era la borghesia a essere cambiata.
Io l’avevo seguita.

Lasciato «il Giornale», fui invitato a cena a casa sua. «Avevi ragione tu, Indro, quando te ne andasti da via Negri. Sono stato lì quattro anni e mi sono davvero rotto i coglioni» gli confessai. Montanelli scoppiò a ridere. «Perché hai mollato?» mi domandò. «Ero stufo e, siccome avevo una cospicua liquidazione da riscuotere, ho sloggiato più volentieri» spiegai. Ridevamo come matti. Lo divertiva il fatto che avessi strappato una bella vagonata di soldi, lui non era bravo a trattare con il denaro. Io, invece, quando c’è da riscuotere divento ancora più tignoso e incazzato. Dopo qualche mese, cominciai a pensare di fondare «Libero» e la notizia venne diffusa. Mi trovavo a pranzo con Renato Farina al ristorante Il Porto quando nel tavolo in fondo alla sala vidi Montanelli, il quale si alzò e mi raggiunse. «Noto che non fai più parte del mio club, quello dei magri, hai messo su qualche chilo, caro Vittorio», poi aggiunse: «Tu, a differenza mia, sai fare bene i conti, ce la farai con il tuo “Libero”».

E poi la rottura. In diretta tv. Durante una trasmissione condotta da Michele Santoro, «il Raggio Verde», in onda su Raidue, ci fu un’accesa discussione tra me e Indro.
Era presente anche Travaglio. Era il marzo 2001. Non ci chiarimmo mai più. Indro morì. Mi dispiace non averci parlato, ma, in fondo, non c’era nulla da chiarire. Avevo ragione io. Indro era andato via incazzato dal «Giornale» perché Berlusconi si era gettato a capofitto nell’agone politico, io comprendevo le sue paure e ragioni, tuttavia il modo che utilizzava per criticarlo era ingiusto. Sosteneva che il leader di FI fosse un fascista, un despota, un pericolo per la democrazia, un manganellatore. «Caro Indro, per vent’anni hai sempre affermato che Berlusconi fosse il migliore editore che tu avessi mai potuto immaginare di avere, perché non ha rotto mai le palle. A un certo punto, da un giorno all’altro, hai capovolto la tua opinione, dipingendo l’uomo come una sorta di mostro» gli dicevo. Il punto è che Indro era convinto che Berlusconi fosse il proprietario del suo giornale e lui il padrone assoluto. Ma il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è. Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l’asino dove vuole il padrone. Indro però non aveva torto, non sopportava che arrivasse qualcuno, quantunque fosse colui che mette il grano, a dettare legge imponendogli una certa linea, che magari avrebbe seguito di sua spontanea volontà se non fosse stata l’unica strada permessa. Devo ammettere che io andai via dal «Giornale» poiché mi ero rotto le scatole delle pressioni ricevute non da Berlusconi ma dagli ominicchi del suo partito, che davano per scontato che il quotidiano che io dirigevo fosse al loro servizio.

LE QUATTRO ESSE E LA M...
Di Montanelli restano gli insegnamenti. Mi sembra ancora di sentirlo e non c’è mattina in cui io, giunto in redazione, non ripensi a queste parole: «Caro Vittorio, quando fai un giornale, devi sempre tenere presente che alla gente non interessano molto gli spiccioli della politica, per cui devi fare due articoli di fondo alternati, di cui uno contro un personaggio politico importante, e il titolo deve essere “testa di cazzo”. Se invece fai un pezzo sull’Italia, il titolo deve essere “Paese di merda”. Questa è la tecnica migliore». E come un’eco si aggiunge Gaetano Afeltra: «Vittorio, ricordati sempre la regola delle quattro “s”, soldi, salute, sesso e sangue. E, infine, uno schizzo di merda qua e uno là». Certe persone restano per sempre, persino quando non ci sono più. 

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