Essere Milan Kundera
Esiliato dalla Praga sovietica, anticomunista, indagatore dell'eros, protoconservatore. Faceva politica scavando nell'animo umano: era tutto tranne che leggero e sostenibile
Milan Kundera è uno dei pochi autori della letteratura mondiale in grado di cambiare la vita anche a chi non l’ha mai letto.
Novantaquattro anni arabescati su volto di rughe e di dolore, cecoslovacco di Brno, figlio di un pianista, jazzista nell’anima, ultimo raffinato interprete della letteratura mitteleuropea, Kundera scompare oggi con tutto il suo carico di politica e di leggenda. E Roberto D’Agostino, l’esegeta del Kitsch e dell’edonismo reaganiano, l’uomo che lo rese materia di popolo dal palco Rai di Quelli della notte, proprio ora, confessa di non averne «mai sfiorato», almeno all’inizio, il suo capolavoro, L’insostenibile leggerezza dell’essere. Eppure quel romanzo- imperniato sulla vita degli artisti e degli intellettuali cecoslovacchi nel periodo tra la Primavera di Praga e la tragica invasione subìta dal Patto di Varsavia - avrebbe salvato la casa editrice Adelphi; e sarebbe diventato il vero livre de chevet degli 80, «anche se parlava degli anni 70...».
Come l’onesto Dago, molti di noi, approcciarono con superficialità quel diavolo di Kundera che era un po’ - anche fisicamente - la versione oscura di un Carver abbeveratosi a Kafka e ai classici greco/boemo/magiari.
CACCIATORE DI COMUNISTI Kundera s’iscrisse al partito comunista praghese nel 1948 e ne fu espulso due anni dopo, assieme all’idea del «socialismo dal volto umano» di Alexander Dubcek da lui tanto condivisa. Poi lavorò come manovale e docente di cinema (materia in cui era laureato). Poi si diede alla scrittura sotto pseudonimo di fantastici oroscopi per riviste ye-yè. Poi prese l’impegno di petto; e già con la raccolta Amori ridicoli acquisì fama di oppositore all’«ottusità repressiva del comunismo staliniano». Eppoi, in una convulsa transumanza politica, Kundera fu riammesso nel partito nel ’50 e ri-cacciato nel ’70; inoltre abbandonò il suo Paese incastrato tra la falce e il martello prima per l’Università di Rennes, poi per la Parigi cosmopolita di Giscard d’Estaing e di Mitterrand, i quali resero Milan cittadino francese in odore perenne di Nobel peraltro mai ottenuto.
Insomma. A osservarne il girovagare, molti di noi, sulla scia degli epigoni di Aleksandr Solzenicyn, appunto, pensarono a Kundera come a un altro comunista pentito, a un maître à penser irrealizzato alla ricerca del suo punto d’appoggio. E pensavamo questo sfogliando, svogliatamente, certe sue opere dense d’interrogativi sul Fato che ghermisce il genere umano, sulla paternità, sull’eros, sul concetto di “oblio” che egli stesso (nel Libro del riso e dell’oblio, Bompiani) contrapponeva alla necessità di una memoria collettiva, ardente e necessaria per la vita d’una nazione. Che, se vogliamo, può essere intesa come il germe letterario del conservatorismo oggi così in voga in Europa. C’è da dire che questo pregiudizio d’intellettuale esondante e quasi macchiettistico era dovuto soprattutto all’utilizzo pop che di Kundera facevano autori di varia stazza, da Italo Calvino (nelle Lezioni americane) a Antonello Venditti, dal fisico statunitense Frank Wilczek, allo stesso D’Agostino. Quest’ultimo proprio su istigazione di Renzo Arbore - lo prese a modello per caricaturare «l’intellettuale post-tutto e ante-niente, così in auge in quella prima metà degli anni Ottanta».
Epperò, ci bastò leggere, di Milan, Lo scherzo (1967), La vita è altrove (1969), Il valzer degli addii (1972) per applaudire autentici capolavori contrassegnati da una loro specificità.
Quella di mettere in scena «la futilità di ogni progetto umano e la divergenza dei punti di vista tra gli individui attraverso il ritmo ben modulato delle vicende da cui i personaggi sono travolti, in un susseguirsi di malintesi e illusioni svanite, con diversi colpi di scena», scrisse la critica. Non a torto.
L’ANONIMATO SPINTO Kundera negli ultimi annidi vita, s’impegnò nella scelta di un anonimato disperatissimo - a metà fra Mina e Victor Hugo- da cui mutuava la sensibilità storica e il piglio all’autoesilio. Epperò, in un’interessante intervista a Massimo Rizzante di Repubblica, egli ebbe modo di raccontare il suo impegno politico via letteratura: «Lo scherzo (il libro più politico, ndr) è stato immediatamente accolto in Occidente quasi come un modello della letteratura anticomunista o, come si diceva allora, dissidente. Eppure il romanzo fu pubblicato del tutto legalmente nella Cecoslovacchia comunista un anno prima della celebre Primavera di Praga, esattamente nella primavera 1967».
Il romanzo fu pubblicato ed ebbe in rapida successione tre edizioni che raggiunsero globalmente una tiratura di 117.000 copie. Nella primavera del 1968 il libro ottenne il premio dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. E Kundera divenne il narratore antisovietico per antonomasia. «La Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia sono state trasformate dopo la Seconda guerra mondiale in satelliti della Russia. Questa è stata la loro disgrazia comune», diceva, ma prima dell’invasione dell’Ucraina. Eppure Kundera fu anche un autore preterintenzionale alla politica.
Nel ’90 uscì in Francia L’immortalità, sei atti di malinconia e erotismo con citazioni da Goethe a Hemingway. In lingua francese pubblicò una trilogia sui vizi umani: La lentezza (1995), L’identità (1997) e L’ignoranza (2001). Nel nuovo millennio Kundera si spese soprattutto nei saggi: Il sipario (2004) e Un incontro (2009), in cui come molti scrittori a fine carriera rese pubblici i consigli sull’arte dello scrivere. Anche perché scriveva e pensava in due lingue, il ceco e il francese.
IN DUE LINGUE «Si pensa sempre che un romanziere abbia le proprie radici in un Paese. Non è così. Come romanziere egli affonda le proprie radici in alcuni temi esistenziali che lo affascinano e sui quali ha qualcosa da dire. Al di fuori del cerchio magico dei suoi temi, perde tutta la sua forza». «Se Kafka fosse stato costretto a scrivere una saga famigliare o un romanzo storico su Maria Teresa, come un qualunque cattivo scolaro, non avrebbe affatto superato l’esame», dichiarò sempre a Repubblica con invincibile sarcasmo. A differenza di colleghi più loquaci, Kundera, anche quando l’editore parigino Gallimard decise di farne una bandiera, si ritenne tutt’altro che un esiliato. Anche perché si sentiva francese. E, da francese eretico, attraversò anche il periodo della critica all’Occidente. Essere Milan Kundera, nel complesso, è stata un’operazione tutt’altro che leggera e sostenibile...