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Vittorio Feltri, Sallusti intervista Mattia: "Babbo, ti ho capito"

Alessandro Sallusti
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Domani Vittorio Feltri, tra le tante cose anche fondatore di questo giornale, compie 80 anni. Per noi di Libero oggi questa è la notizia più importante, del resto banalmente se non ci fosse stato lui oggi non saremmo qui. Detto che lui detestai compleanni, come i matrimoni e i funerali, detto che non sa di questa prima pagina che non è detto gradirà, detto insomma che con Vittorio Feltri non c’è mai da dare nulla per scontato e che su di lui si potrebbe scrivere una enciclopedia, il figlio Mattia Feltri collega di chiara fama, editorialista de La Stampa e direttore dell’Huffingtonpost Italia - ha accettato di condividere rischi e onori di questa vigilia dialogando con noi su suo papà Vittorio.

Ottant’anni e ancora sul pezzo da mattina a sera. Tanta roba.
«Comunque la metti a ottant’anni, come direbbe lui, è sempre meglio arrivarci che no. Quindi tanti auguri e complimenti».
Non basta, vogliamo sapere di più. 
«Vittorio mi ha avuto nel 1969 che aveva ventisei anni. Io ho compiuto gli anni ieri, lui domani. Una volta, tanti anni fa, mi disse: mi stai sulle palle perché per tutta la vita avrai ventisei anni meno di me. Oggi lui ottanta, io 54. Diciamo che fu una profezia azzeccata».
Il primo ricordo insieme? 
«Non so precisamente quale è il primo ricordo, ma ho dei primi ricordi. In particolare la prima volta che mi portò allo stadio, si giocava Atalanta-Torino. Io ero un piccolo tifoso dei granata e continuavo a correre per le gradinate in modo da stare il più vicino possibile al pallone e lui passò novanta minuti a inseguirmi, diciamo un pomeriggio non molto rilassante. Fu una giornata veramente magica, andare allo stadio da bambini con il padre a vedere la squadra del cuore è una cosa meravigliosa. Fini zero a zero ma a me non importò nulla, mi è bastato esserci».
Altro ricordo.
«Da bambino mi sono ammalato di streptococco beta-emolitico di gruppo A, la stessa malattia che ha ucciso il povero Massimo Troisi. Io per fortuna ne sono guarito e ho il ricordo di Vittorio che mi porta in braccio in classe agli esamini di seconda elementare che allora c’erano».
Un padre affettuoso.
«Lui era un padre molto attento nonostante fosse già impegnato sul lavoro, quando ero bambino prima a La Notte e poi al Corriere di Informazione. Io ero a casa malato e lui, nonostante gli orari folli dei giornali di allora, faceva in modo di rientrare in tempo per trovarmi sveglio e portarmi i libri di Jules Verne, i miei preferiti. Insomma ho ricordi di una presenza magari non quantitativa ma sicuramente qualitativa e accudente: amavo il calcio e mi portava allo stadio, amavo i libri di avventura e non me li faceva mancare. Sono cose che poi io non ho più dimenticato negli anni, cose che legano».

 

 

 


Negli anni è cambiato il rapporto? 
«Bè, quando si cresce cambiano tante cose ma questa cosa qui non è mai venuta meno, lui ha la grande capacità di esserci nei momenti veramente importanti o quando capisce che qualcuno è in difficoltà e ha bisogno di aiuto».
Ti ha aiutato anche a fare il giornalista? 
«Ho voluto fare io il giornalista o è lui che mi ha spinto? Diciamo che è successo, in modo molto naturale. Io andavo all’università e come tutti i ragazzi per guadagnare qualche soldo mi inventavo qualche lavoretto tipo dare una mano nella birreria di un amico. Lui non è che fosse preoccupato, certo era tutto un po’ disordinato sia dal punto di vista del rispetto delle leggi sul lavoro che per gli orari. A un certo punto mi dice: mi fa piacere che tu voglia guadagnare qualche soldo ma allora vai a collaborare a Bergamo Oggi, uno dei due quotidiani di Bergamo di cui lui fu anche direttore».
E tu? 
«Ci sono andato ma con lo stesso spirito e predisposizione con cui andavo in birreria: lavorare per guadagnare, non avevo nessunissima intenzione di fare il giornalista. Dopo di che ho iniziato ad amare questo mestiere, per la verità più che il mestiere in sé tutto ciò che lo circonda: la vita di redazione, le cose interessanti di cui ti occupi, il poter scrivere e quindi il dover leggere che è la mia vera passione. Morale: a 23 anni presi il tesserino di praticanti giornalista ed eccomi qui».

 

 

 


Pubblicamente Vittorio parla poco di te, e quando lo fa a volte lancia frecciatine. Ma privatamente è molto orgoglioso dei tuoi risultati. Con te quale registro tiene? 
«Raramente mi ha elogiato apertamente però la cosa traspare, fa in modo che io possa intuire il suo apprezzamento per quello che mi è successo nella vita professionale. Quindi sì, lui ha questo modo di essere burbero, ma come succede nei burberi anche lui ha le zone facilmente esplorabili, non così nascoste come potrebbe sembrare».
Diciamo che non è il prototipo del padre compagnone. 
«Cerca sempre di mantenere un certo distacco. Io mi ricordo un episodio, siamo agli inizi degli anni Duemila e vado a lavorare a Roma al quotidiano La Stampa. Dopo un paio di mesi torno per la prima volta a casa nostra a Bergamo e lui mi accoglie dandomi la mano, come se fossi un sottosegretario o il suo commercialista. Però lo sguardo lo tradiva, era quello con cui un padre guarda il figlio. Lui ha sempre questo doppio registro: io so che è contento della vita che ho fatto e sono pure contento che non me lo dica, in fondo certe cose non è neppure necessario dirsele, quantomeno non è indispensabile».
Veniamo al Feltrismo, genere giornalistico amato e contestato. 
«Tutto nasce agli inizi degli anni Novanta quando sulla scena appaiono due nuovi generi di giornalismo che tutt’ora sopravvivono e che non sono più stati innovati. Uno è il Feltrismo, che nasce all’Europeo e poi deflagra all’Indipendente sull’onda di quel “Taches al tram” di Umberto Bossi, cioè il giornalismo di ribellione all’ossequio paludato verso la politica che si esprime con una titolazione e un uso delle fotografie spiazzante. L’altro genere è quello chiamato dell’alto-basso, noiosità autorevole mixata alla leggerezza».
Il Mielismo.
«Esatto, Paolo Mieli lo mette a punto in quegli anni a La Stampa, poi lo perfeziona al Corriere della Sera. La sua definizione migliore la diede l’Avvocato Agnelli: “Mieli – disse divertito - ha messo la minigonna a una vecchia signora”. Se ci pensi i cosiddetti giornaloni, termine che non amo ma così vengono chiamati, seguono ancora quel modello lì di Paolo Mieli e tutti gli altri, non solo quelli di area, ma per esempio anche il Fatto Quotidiano, sono tutti figli del Feltrismo».

 

 

 


Tu non sei mai stato arruolato nel Feltrismo.
«Io sono stato molto appassionato al Feltrismo, quello della prima ora all’Indipendente mi ha esaltato, ma penso che sia venuto il momento per tutti quanti di provare a inventarsi dopo trent’anni qualche cosa di nuovo perché sia l’uno che altro dei modelli – il Feltrismo e il Mielismo – mostrano un po’ i segni del tempo oltre che corrono il rischio, imitazione dopo imitazione, di diventare un po’ caricaturali. Ciò detto va dato atto che il passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica è avvenuto anche grazie a questo nuovo modo di raccontare la politica».
Che mi dici di Crozza che imita Feltri? 
«Lo fa veramente bene. Al di là della voce, è perfetto nel ricostruire il suo modo di parlare e i suoi tic. Certo, in quello che dice è paradossale, ma nel replicarlo è quasi perfetto. Sì, mi diverte anche se devo ammettere che non ne ho visti molti, a dire la verità Crozza, tecnicamente bravissimo, non è tra i miei preferiti».
Qui a Libero siamo stati testimoni di un fatto epocale: Vittorio Feltri che molla la sua macchina da scrivere e passa al tablet. Quale è il suo vero rapporto con la modernità, intendo, ci crede o è un conservatore che si è dovuto arrendere all’evidenza? 
«Vittorio è un uomo che tende ad annoiarsi, in verità credo che tutto lo annoi, non sopporta la ripetizione di riti, lo stare nello stesso posto, fare le stesse cose, si annoia a stare a casa e va al giornale poi dopo poco si annoia di essere al giornale e torna a casa. Perché dico questo? Perché non è il ritratto di un conservatore bensì di un uomo in fermento sempre in cerca di un motivo per vivere e questa è certamente la sua forza. A me non ha stupito vederlo scrivere sul tablet. I suoi giornali del resto sono stati tentativi riusciti di cercare qualche cosa di nuovo, diverso, qualcosa che cerca di capire che cosa succede nella società. No, Vittorio non è un anti moderno, ha sempre cercato di stare al passo con i tempi e il primo telefonino che ho visto nella mia vita fu quello che portò lui a casa».
Però alcune sue uscite, per esempio quelle sui gay, apparentemente non coincidono con questo ritratto.
«Ti racconto questa. Quando avevo sei anni, cioè nel periodo della mia vita in cui ero un po’ malconcio, andai al mare per la prima volta e ci andai insieme a una coppia di carissimi amici dei miei genitori, ma attenzione, parliamo di una coppia di omosessuali. Oggi sarebbe del tutto normale, ma nel 1975 ti assicuro che non lo era, dappertutto ma non in casa di Vittorio Feltri, uomo che come dimostra questo aneddoto non è mai stato né reazionario né conservatore. Lo sembra? Sì, ma bisogna intenderci».
Intendiamoci.
«Mio padre se non ha casini attorno non è contento. Io mi diverto a leggere quello che scrive ogni giorno su Twitter, cose a volte veramente pesanti e a volte scioccanti. Ma io sono stracerto che lui lo fa per il gusto di leggere sotto il suo post tutti quelli che lo insultano. Alcune delle cose che scrive sono inaccettabili, ma è irrilevante quanto ci creda o no, lui lo fa per osservare divertito la reazione di questa umanità social mediamente piccolina e spesso rimbambita. Capita che quando esagera qualcuno scriva anche a me e mi chieda di intervenire per fermarlo, il che dimostra la stupidità di chi pensa che io possa o debba interferire con quello che fa Vittorio Feltri. Le vere vittime di quello che scrive mio padre non sono i soggetti dei tweet, sono quelli che ci cascano».
C’è qualche cosa di Vittorio Feltri che noi colleghi e lettori non conosciamo?   
«Sì, e per questo motivo non te lo posso dire. Lui ha una vita privata che non rende nota e non lo fa perché non vuole che sia nota. E questo credo che gli faccia onore».
Ci sarà una terza generazione di Feltri giornalisti? 
«Chi lo sa. Mia figlia più grande ha 17 anni, il piccolo 14, come me alla loro età non sanno ancora che faranno nella vita. Certo io non mi opporrò alle loro scelte qualsiasi esse saranno».
E Vittorio nonno? 
«Mio padre riesce a vedere i suoi nipoti abbastanza di rado vivendo noi a Roma e lui a Milano. Quando capita ha un modo tutto suo di rapportarsi. Un paio di anni fa ci siamo trovati e c’era anche il figlio di una mia sorella. Lui chiede: chi di voi va peggio a scuola? Silenzio imbarazzato. E lui: peccato, a quello che va peggio avrei regalato cinquanta euro. Si è scatenata una specie di rissa su chi era meno bravo che è finita con premi di consolazione per gli sconfitti. Ecco, questo suo modo di fare, di sdrammatizzare, è per dire che nella vita tutto è rimediabile. C’è una frase che recita: bisogna prendere tutto sul serio tranne se stessi. In questa massima c’è tanto Vittorio Feltri e la cosa incredibile è che dopo tanti anni ancora non è stato capito che lui è così. Lui crea scandalo anche tra i nipoti premiando il meno bravo ma in realtà vuole dire: non siate fessi da pensare che io sia fesso, la vita bisogna viverla comunque».
Per gli ottant’anni che regalo gli farai?
«Babbo è abbastanza allergico ai regali, poi c’è il problema che non ha grandi pretese e per le poche che ha è economicamente autonomo. Per anni, da ragazzi, noi fratelli si arrivava con la pipa – una sua passione – ma poi quelle che si comperava lui erano sempre più belle e pregiate e allora ci rimanevamo male. Però un regalo voglio farglielo lo stesso».
Quale?
«Su tante cose io e lui la pensiamo in maniera differente, ci è capitato di litigare e a volte è successo con qualche tono che è andato oltre il necessario. Sono convinto che le persone non vadano giudicate ma capite, e sono convinto che capire è il più grande atto di amore che si possa fare nei confronti di una persona. Quindi il mio regalo è dirgli in verità: babbo, guarda che io ti ho capito, capito fino in fondo».

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